Impossibile parlare dell'Africa senza menzionare l’imponente presenza europea che a partire dal XV secolo ridisegnò i confini di popoli e nazioni. Come riflesso, gli eventi, che caratterizzarono il XIX e il XX secolo nel Vecchio Continente, rivoluzionarono anche le strutture politiche e sociali africane, alterandone i rapporti di potere. Sono molteplici i motivi che spinsero gli europei nell’avventura coloniale e tutt’ora storici e intellettuali dibattono sul concetto stesso di colonizzazione e sulla sua eredità.

Inizialmente fu lo sfruttamento degli schiavi. Colonie come il Senegal, parte dell’impero francese dal 1677, divennero tristemente famose per l’intenso commercio di uomini che dalle coste occidentali venivano deportati nelle Americhe. Dall'atra parte, i capi delle popolazioni indigene, incapaci di figurarsi le conseguenze della presenza coloniale, spesso accettavano di firmare "trattati" con cui cedevano la loro sovranità alle potenze europee.

A partire dall’ottocento, dopo il declino di Napoleone, la corsa verso il continente "nero" divenne sempre più spietata. La Gran Bretagna, forte della vittoria di Waterloo estese sempre più la propria influenza su nazioni come il Sudan e l'Egitto, precedentemente legati alla corona francese, fino a renderle protettorati di Sua Maestà. In meno di un secolo, tutta l'Africa divenne appendice dell'Europa. Con la Conferenza di Berlino del 1885, Germania, Belgio, Francia e Gran Bretagna decidevano i confini dei rispettivi domini.

Dopo i due conflitti mondiali, e le gravi perdite riportate da Germania e Italia, furono soprattutto Francia e Gran Bretagna a dividersi il vasto continente africano. Per grandi linee si potrebbe riassumere che ad occidente la maggiore influenza fu quella francese, mentre ad est, se si escludono Eritrea, Somalia e Etiopia per un breve periodo possedimenti italiani, la presenza britannica fu massiccia. Dopo la seconda guerra mondiale, l'Europa in era ginocchio. Nel 1948, Churchill e Rooselvelt firmavano la Carta Atlantica in cui veniva sancito il principio di autodeterminazione dei popoli. Nel frattempo il mondo si divideva in due blocchi contrapposti l’uno all’atro, da un lato l’occidente guidato dalla Nato e dagli Stati Uniti, dall’altro l'Unione Sovietica e i paesi del trattato di Varsavia.

Ispirati dagli ideali socialisti, leader come Julius Nyerere e Patrice Lumumba fecero soffiare in tutto il continente il vento del panarabismo, un movimento politico e culturale che promuoveva l’eguaglianza per tutti i popoli africani. Dopo sanguinose rivolte, come nel caso dell’Algeria, o fasi di transizione pacifiche come nel caso del Kenia e del Senegal, molte nazioni ottennero l’indipendenza. Ma la povertà, la mancanza di istituzioni stabili e le profonde divisioni settarie, ancora oggi, impediscono uno sviluppo economico solido e una pace sociale duratura.

In alcuni paesi come il Sudan, le guerre civili scoppiarono ancora prima dell’indipendenza, mentre in altri come la Nigeria, la vita politica è stata caratterizzata da una tragica altalena di colpi di stato, rivolte intestine come la guerra che dal 1967 al 1970 ha insanguinato il Biafra, causando circa 3 milioni di morti. Il sistema politico e economico che in Sudafrica dal 1948 al 1994 legittimò la discriminazione razziale tra bianchi e non-bianchi (oggetto di discriminazione, oltre alle popolazioni indigene, erano anche le comunità indiane e i meticci) prende il nome di Apartheid.

In Afrikaans (variante africana del nederlandese, risalente ai dialetti boeri, i primi coloni olandesi in Sudafrica) Apartheid significa "separazione". Attraverso una serie di leggi razziali, gli Afrikaner, discendenti dei coloni olandesi trasformarono le aree più interne del paese in vere e proprie riserve dove relegare la popolazione di colore. Quasi 50 anni di segregazione razziale hanno lasciato delle ferite molto profonde all’interno della società sudafricana. Nonostante l'economia del paese sia considerata tra le più fiorenti di tutta l'Africa, ancora tutt’ora la maggioranza della popolazione di colore vive al di sotto del livello di povertà (il 50% della popolazione totale). Tra gli anni '80 e gli anni '90 si è avuta un recrudescenza della violenza, con devastanti guerre civili che si sono lasciate alle spalle milioni di morti e un numero ormai imprecisato di rifugiati.

Un vero olocausto quello che ha insanguinato il Ruanda nel 1994. Nella secolare faida tra le due maggiori etnie, Hutu e Tutsi, in solo 100 giorni furono massacrate circa un milione di persone. In Sudan si stima siano morte circa 200.000 persone nella lotta tra tribù di origine musulmana e africane che dal 2004 si contendono la regione occidentale del Darfur, ricca di risorse idriche e petrolio. Ultima, solo per una questione di tempo, è la crisi che dal dicembre 2007 sta devastando il Kenia, una delle democrazie più stabili e ricche dell'Africa meridionale: in due mesi sono state sterminate circa 1.500 persone e si stima i rifugiati siano più di 250.000. Ma i massacri hanno insanguinato quasi tutti i paesi dell’Africa subsahariana, come la Liberia, l'Uganda, la Somalia, la Sierra Leone e il Ciad.