Il 20 gennaio 1961 il candidato democratico John Fitzgerald Kennedy vinse le elezioni presidenziali contro il candidato Repubblicano Nixon. Nato il 29 maggio 1927, Kennedy fu il più giovane presidente degli Stati Uniti, ma anche il primo inquilino cattolico della Casa Bianca.

Sul fronte interno, la figura di Kennedy si legò soprattutto alla battaglia per i diritti civili degli Afroamericani, che in quegli anni vedeva nel reverendo Martin Luther King la principale figura di riferimento.

Nonostante la Corte Suprema avesse dichiarato nel 1954 incostituzionale la segregazione razziale a scuola, in molti stati del sud, la popolazione di colore continuava ad essere vittima di discriminazione e veniva posta ai margini della società. Durante la campagna presidenziale, Kennedy ottenne l'appoggio dalla moglie di King, Coretta Scott King, con l'impegno di favorire la scarcerazione del marito, guadagnandosi così i voti della comunità afroamericana.

Nel 1962, il giovane presidente inviò 400 Federal Marshals (letteralmente "marescialli federali", agenti col compito di verificare l'applicazione delle leggi federali) in aiuto di James Meredith il primo afroamericano ad entrare nell'Università del Mississippi.

I Federal Marshals furono inviati anche a protezione dei Freedom Riders, attivisti politici che dagli stati del Nord si dirigevano verso quelli del Sud per verificare che ovunque fosse applicata la sentenza della Corte Suprema, Boynton V. Virginia del 1960 (la sentenza annullava la legge dello stato di Virginia che vietava ai neri di salire sugli autobus "whites only", solo per bianchi). Con l'andare del tempo, comunque, Kennedy non riuscì a mantenere le sue promesse elettorali e in alcune zone del Paese continuarono a perpetuarsi le discriminazioni razziali e in alcuni casi si verificarono gravi episodi di razzismo.

La risposta della comunità di colore fu l'imponente marcia su Washington a cui presero parte 250 mila persone, tra bianchi e afroamericani. In risposta, Kennedy, con una serie di memorabili discorsi incentrati sulla tolleranza, riuscì a guadagnare il consenso di quella parte d'America che vedeva in lui una possibilità di cambiamento. Sullo scacchiere internazionale, la breve presidenza di Kennedy conobbe momenti di grande tensione come il fallito tentativo di spodestare Fidel Castro e la conseguente crisi missilistica cubana, risolta con una serie di accordi tra Kennedy e il leader sovietico Khrushchev. D'altro canto, proprio nell'ambito della lotta al comunismo, Kennedy inviò le prime truppe in Vietnam.

Kennedy fu ucciso a Dallas, Texas, il 22 novembre 1963, mentre attraversava le strade della città su una limousine scoperta. Il corteo presidenziale, circondato di sostenitori e curiosi, procedeva attraverso Dealey Plaza alle 13:30 ora locale. Nella limousine viaggiavano anche sua moglie Jacqueline, il governatore del Texas, John Connally e sua moglie Nellie Connally. La macchina imboccò una curva e rallentò. La velocità di crociera era di 11 miglia all'ora (circa 18 km all'ora), quando si sentirono diversi colpi d'arma da fuoco. Poco ore dopo, il giornalista Walter Cronkite interruppe le trasmissioni della CBS per dare l'annuncio dell'attentato al presidente, ma non disse che Kennedy era già morto:

"A Dallas, Texas, sono stati sparati tre colpi contro il corteo del presidente Kennedy, le prime notizie dicono che il presidente è stato gravemente ferito." ("In Dallas, Texas, three shots were fired at President Kennedy's motorcade, the first reports say the president was seriously wounded.") Quando Kennedy arrivò all'ospedale Parkland di Dallas, infatti, non c'era più nulla da fare. Il cadavere fu subito caricato sull'Air Force One (l'aeroplano privato del presidente) e portato a Washington. In volo, 39 minuti dopo l'assassinio, il vice Lyndon Johnson (che a Dallas era dietro alla macchina presidenziale) giurò come nuovo presidente.

La figura di JFK è ancora oggi una delle più popolari della storia americana. Kennedy, infatti, non fu solo il più giovane presidente USA, ma anche il più giovane a morire mentre era ancora in carica. L'assassinio di Dallas del 22 novembre 1963 stroncò la vita di Kennedy, restituendo al mondo la figura di un politico giovane, innovatore, simbolo dell'America turbolenta degli anni '60. Ma ancora tutt'ora, molte sono le speculazioni sull'effettiva capacità di Kennedy di concretizzare le sue promesse elettorali. Del resto, il suo assassinio trasformò lo statista in eroe. L'America di Kennedy era pervasa da un desiderio di cambiamento, ma al tempo stesso, le tensioni razziali, l'incubo della Guerra Fredda e la costante paura del comunismo facevano del paese un puzzle difficile da ricomporre.

La stessa America, orfana dello storico presidente, rimase impantanata nella guerra del Vietnam, nella quale persero la vita quasi 60 mila soldati statunitensi, smarrita di fronte alla tragedia che il conflitto nel lontano oriente rappresentava. Per di più, cinque anni dopo, nel 1968, furono assassinati, a distanza di pochi mesi, Martin Luther King e un altro Kennedy, il fratello del presidente, Bob, proprio mentre annunciava la sua vittoria alle primarie del partito Democratico.

Di sicuro la morte ha mitizzato l'immagine di Kennedy. Col tempo, però, sono venuti fuori altri aspetti. Nel 2003, il professore di storia dell'Università di Boston, Robert Dallek, ha pubblicato libro An Unfinished Life: John F. Kennedy, 1917-1963, nel quale, per la prima volta, vengono riportate le cartelle cliniche del presidente. Dallek mostra forse l'aspetto più vulnerabile del presidente. Kennedy, infatti, non godeva affatto di buona salute. Soffriva di gravi disturbi alla schiena, a causa di una ferita riportata durante la Seconda Guerra Mondiale che gli aveva compromesso alcune vertebre. Inoltre, aveva gravi problemi intestinali e prendeva anche otto pastiglie al giorno, tra analgesici e ansiolitici per curare stress e ansia.

A partire dal tragico 22 novembre 1963, molteplici sono state la congetture riguardanti l'omicidio Dallas, dal complotto organizzato dai servizi segreti sovietici, alla mafia, alla stessa CIA. Secondo quanto stabilito dalla Commissione Warren, istituita dal presidente Lyndon Johnson sette giorni dopo l'omicidio, l'unico incriminato rimane il filo-castrista Lee Oswald. La Commissione nel 1964 dichiarò che Oswald agì da solo, uccidendo il presidente con tre colpi (di cui uno a vuoto e due a segno) sparati da un fucile a basso costo, comprato per corrispondenza (l'arma era di fabbricazione italiana). I colpi partirono da una finestra al sesto piano del deposito della Texas School Book.

Ma anche Oswald fu assassinato. Mentre veniva condotto nella prigione della contea, Jack Ruby, ebreo, gestore di un night club affetto da turbe psichiche, gli sparò un colpo all'addome, rivendicando l'omicidio come un atto di patriottismo. Difficile capire come la nazione più potente al mondo avesse potuto permettere non solo l'omicidio del suo presidente, ma anche del principale indiziato. Ma dalle testimonianze di giornalisti e semplici cittadini di Dallas, nella stazione della polizia dove Oswald era stato trattenuto doveva regnare il caos, con centinaia di reporter e curiosi che si accalcavano per vedere l'assassino di Kennedy. Dieci anni dopo, lo scandalo Watergate che stroncò la carriera politica di Nixon nel 1973 portò alla luce alcuni personaggi vicini ai servizi segreti, sospettati di essere responsabili dell'omicidio di Kennedy.

La successiva Commissione Rockfeller, istituita nel 1974 dal presidente Ford (successore di Nixon), per far luce su presunte attività deviate della CIA, interrogò Frank Anthony Sturgis (uno degli scassinatori della base Democratica a Washington, che negli anni '50 aveva preso parte al fallito tentativo di spodestare Castro) su un presunto coinvolgimento nell'omicidio Kennedy. Proprio nella metà degli anni '70, il settimanale Newsweek pubblicò fotografie di tre uomini presenti a Dallas, fermati poco dopo l'omicidio presso la stazione della città texana, e subito rilasciati perché considerati semplici vagabondi. Dei tre, due somigliavano a Sturgis e all'ex spia della CIA E. Howard Hunt (il quale, sul letto di morte, rilasciò un'ultima dichiarazione in cui accusava proprio il successore di Kennedy, Lyndon Johnson, di aver ordinato l'omicidio). Ma inchieste successive dimostrarono l'infondatezza della pista seguita da Newsweek: i tre fermati alla stazione di Dallas erano davvero vagabondi.