La guerra nelle regioni della ex Jugoslavia è stato dei conflitti più sanguinari scaturiti dal crollo del blocco sovietico. Nel 1992, la Bosnia Erzegovina dichiarò la sua indipendenza dall'ex Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia (RSFJ, alla quale appartenevano anche Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia). Dalle ceneri della RSFJ, il primo paese ad ottenere l'indipendenza fu la Slovenia. In seguito, Serbia e Montenegro si fusero in un'unica nazione dando vita alla Repubblica di Serbia e Montenegro (anche conosciuta come Repubblica Federale di Jugoslavia).

Ma le istanze d'indipendenza dall'ex Repubblica Socialista Jugoslava (in cui la Serbia, a partire dalla sua formazione nel 1943, aveva un peso maggiore, soprattutto da un punto di vista militare) diedero vita ad una serie di conflitti etnici che sconvolsero la nazione per quasi un decennio. Sia in Croazia che in Bosnia, le aspirazioni di indipendenza portarono a 4 anni di scontri violenti. Mentre in Croazia gli scontri si alternarono a una serie di cessate il fuoco, in Bosnia il conflitto assunse proporzioni molto più gravi, come testimonia il massacro di Srebrenica (all'epoca la città era sotto la tutela delle Nazioni Unite), il più grave eccidio avvenuto in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, con un bilancio di circa 7.500 vittime.

La Bosnia era composta da tre etnie, Bosniaci Musulmani e Croati, favorevoli all'indipendenza e i Serbi Bosniaci guidati da Radovan Karadžic, sostenuti dalla Serbia del primo ministro Slobodan Miloševic, contrari alla formazione di una nuova nazione bosniaca. Oltre agli scontri tra le milizie delle tre fazioni, l'esercito serbo condusse uno sterminio sistematico delle etnie avversarie, proseguendo una politica di "pulizia etnica". Dal 1992 al 1995, persero la vita 93.837 persone, secondo quanto riportato nel 2006 dal Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo.

La guerra si concluse con la conferenza di pace di Dayton, in Ohio, dal 1° al 21 novembre 1995, fortemente voluta dal presidente americano Bill Clinton e coordinata dal Segretario di Stato, Warren Christopher. In base agli accordi siglati a Dayton, prima, e Parigi, poi, la Bosnia Erzegovina fu divisa in due: la Federazione croato-musulmana, con il 51% del territorio bosniaco, e la Repubblica Serba, con il 49% del territorio.

Ma la pace nella regione durò molto poco. Già nella primavera del 1998, nella Repubblica di Serbia e Montenegro le prime tensioni tra gli abitanti della provincia meridionale del Kosovo e l'esercito serbo minacciarono una nuova escalation. Più del 90% della popolazione kosovara, infatti, era musulmana o di etnia albanese e la maggior parte chiedeva l'indipendenza da Belgrado. Diversamente, i serbi guidati ancora da Slbodan Miloševic consideravano il Kosovo proprio territorio.

A cominciare dal 1996 ci furono i primi scontri tra i separatisti albanesi dell'UÇK (Ushtria Çlirimtare e Kosovës o in inglese, Kosovo Liberation Army, "Esercito di liberazione del Kosovo") contro le milizie statali che portarono attorno alla fine del millennio a sempre più dure repressioni da parte di Belgrado e da paramilitari serbi di ispirazione nazionalista. In seguito alle persecuzioni operate dai paramilitari serbi, la popolazione albanese abbandonò il Kosovo, cercando rifugio nelle nazioni confinanti, come Albania e Macedonia.

Sul finire del 1998, il segretario NATO, Javier Solana, sostenuto soprattutto dagli Stati Uniti si fece promotore di una serie di negoziati a Rambouillet (tradizionale sede estiva dei presidenti francesi) in cui le diverse parti in campo (gli albanesi dell'UÇK e la Serbia) avrebbero dovuto ottenere una risoluzione pacifica del conflitto, coadiuvate dalla comunità internazionale (NATO, Russia e Cina). Da parte serba, il primo segnale di sfiducia nei confronti dei negoziati forte fu la presenza di Milan Milutinovic, all'epoca presidente della Federazione Jugoslava, al tavolo delle trattative, in sostituzione del primo ministro Miloševic, reale detentore del potere. In effetti, sin dalla crisi in Bosnia, gli Stati Uniti si erano mostrati ostili nei confronti di Belgrado, e nella crisi in Kosovo, Washington aveva apertamente spalleggiato le popolazioni albanesi.

Nonostante le difficoltà iniziali, i negoziati iniziarono il 6 febbraio 1999. Il 18 marzo dello stesso anno, la diplomazia riuscì a trovare un apparente sbocco pacifico alla crisi. Nonostante la resistenza dei rappresentanti dell'UÇK, gli Stati Uniti riuscirono a far firmare alle parti in causa un documento nel quale veniva formalmente garantita l'autonomia del Kosovo, ma non la sua piena indipendenza. Nel successivo incontro di Parigi, in cui le delegazioni avrebbero dovuto occuparsi degli aspetti attuativi e organizzativi dell'accordo, gli Usa imposero alla Serbia la presenza di 30.000 uomini della NATO per mantenere l'ordine in Kosovo, nonché la libertà per il contingente di spostarsi senza impedimento sul territorio jugoslavo.

La delegazione americana, all'epoca guidata dal Segretario di Stato Madeleine Albright, probabilmente sapeva bene che la Serbia non avrebbe mai accettato una simile condizione. E così fu. Milutinovic abbandonò il tavolo delle trattative, rifiutando in maniera incondizionata la proposta statunitense e dopo solo quattro giorni iniziarono le operazioni militari della Kosovo Force (il nome dato al contingente NATO che bombardò la regione).
Per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, l'Alleanza Atlantica avrebbe bombardato uno stato europeo. Del resto, la guerra non ebbe mai il consenso dell'ONU. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, infatti, non autorizzò l'uso della forza in Kosovo per i voti contrari di Cina e Russia.

La Russia di Boris Eltsin si oppose duramente alle operazioni militari NATO, soprattutto per gli antichi vincoli storici, politici e non di meno etnici che la legavano a Belgrado, mentre la Cina di Jiang Zemin nutriva motivi di risentimento nei confronti della Macedonia per aver riconosciuto l'indipendenza di Taiwan. Il 24 marzo 1999, iniziarono i bombardamenti NATO sul Kosovo. Scopo della missione era "Serbs out, peacekeepers in, refugees back" ("Fuori i serbi, dentro le forze di pace, far ritornare i rifugiati!").

Da marzo a giugno 1999, i caccia militari dell'Alleanza Atlantica, molti di questi partiti dalla base italiana di Aviano, colpirono la regione, devastando non solo gli avamposti militari serbi, ma in diversi casi, colpendo le popolazioni civili e gli stessi guerriglieri dell'UÇK. Alla fine del conflitto, nel giugno 1999, il Kosovo divenne un protettorato delle Nazione Unite, ma de jure rimase parte della Serbia. In seguito ai bombardamenti, le persecuzione contro i kosovari si inasprirono, tanto che nella conta delle vittime riportata un anno dopo dalla Croce Rossa, dei 3.368 civili uccisi 2.500 erano albanesi, mentre pare che i cadaveri serbi ammontassero "soltanto" a 400.

Secondo uno studio del Centro Americano per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie con sede in Atalanta, Georgia, pubblicato nel 2000 sulla rivista medica The Lancet, dal 1998 al 1999 in Kosovo sono morte 12.000 persone a causa della guerra. La maggior parte delle vittime erano uomini tra i 15 e i 49 anni (per un totale di 5.421 vittime), mentre tra gli uomini con più di 50 anni ne sono morti 5.176, anche se non era possibile stabilire se tali vittime fossero civili o militari.

Il 25 maggio 1993 con la risoluzione 827 il Consiglio di Sicurezza Onu istituì all'Aia il Tribunale Penale Internazionale per l'ex Jugoslavia, l'organo giuridico con il compito di perseguire i crimini commessi nell'ex Jugoslavia a partire dal suo scioglimento nel 1991. In base alla Convenzione di Ginevra del 1949 (accordi che costituiscono la spina dorsale del diritto internazionale, in particolare, quelli siglati dopo il secondo conflitto mondiale dovrebbero garantire la protezione dei civili in tempo di guerra, nonché un trattamento rispettoso dei prigionieri), il Tribunale Internazionale incriminò 161 persone per aver commesso crimini contro l'umanità e genocidio.

Le accuse riguardavano la guerra in Croazia (dal 1991 al 1995), quella in Bosnia Erzegovina (dal '92 al '95) e quella in Kosovo (1998-99). Tra i principali imputati, il primo a comparire in Tribunale fu proprio il serbo Slobodan Miloševic, capo della Repubblica Federale di Jugoslavia dal 1997 al 2000, arrestato nell'aprile 2001. L'11 marzo 2006, Miloševic fu trovato morto nella sua cella all'Aia per arresto cardiaco. Miloševic aveva chiesto di essere ricoverato in una clinica a Mosca, ma il tribunale aveva respinto la richiesta. La morte del leader serbo arrivò 5 giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Milan Babic, capo dei separatisti serbi che, dal '91 al '95, in Croazia formarono la Repubblica Serba di Krajina, morto suicida nella sua cella.

Tra i maggiori imputati, il capo dell'esercito serbo-bosniaco Radovan Karadžic è stato arrestato il 21 luglio 2008. Karadžic è accusato di aver perpetuato la cosiddetta "pulizia etnica" in Bosnia, di aver ordinato il massacro di Srebrenica nel luglio 1995 in cui vennero uccisi 7.500 musulmani, di aver bombardato Sarajevo e di aver usato 284 peacekeeper delle Nazioni Unite come scudi umani. Fermato in un autobus in un paesino vicino Belgrado, Karadžic, sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni di dollari, si era rifiutato di riconoscere ll'autorità del Tribunale, come, del resto, lo stesso Miloševic. In una delle sue ultime apparizioni pubbliche, infatti, Karadžic disse: "Se il Tribunale dell'Aia fosse un vero corpo giuridico sarei pronto ad andare lì… invece è un corpo politico creato per incolpare i serbi".

Dopo i bombardamenti, gli stermini programmati e la cosiddetta "pulizia etnica", nei Balcani, in particolare in Kosovo, la situazione sembra essere ancora appesa a un filo. Sul finire del 2005, la Comunità Europea avviò una serie di negoziati con la Serbia per accogliere il paese all'interno della Comunità. Ma dopo solo due mesi le trattative furono sospese, a causa della mancata consegna da parte delle autorità serbe dei due maggiori ricercati, Radovan Karadžic e Ratko Mladic (militare serbo anch'egli responsabile del massacro di Srebrenica catturato solo il 26 maggio 2011 grazie ad una segnalazione anonima).

Dopo il fallimento dei negoziati mediati dalle Nazioni Unite, il 17 febbraio 2008 il Kosovo ha dichiarato l'indipendenza, anche se Belgrado continua a considerare illegale tale dichiarazioni. La comunità internazionale, invece, è divisa tra le nazioni che ne riconoscono l'indipendenza (come gli Stati Uniti e le principali nazioni europee) e la Russia, che continua a bloccare l'ingresso del Kosovo nelle Nazioni Unite.