Sul finire del XIX, alcuni dei cambiamenti epocali, come la seconda rivoluzione industriale e le politiche espansionistiche, entrambi nate in Europa, raggiunsero anche le nazioni asiatiche. In quegli anni, infatti, il Giappone, forte di un'imponente crescita economica e militare, decise di espandere il proprio dominio alla vicina Corea, stato per tradizione legato all'imperatore della Cina. Per la sua posizione geografica (situata al sud della Cina, di fronte alle isole giapponesi) e per le sue risorse naturali (carbone e minerali ferrosi), la Corea era da tempo oggetto di contesa tra Tokyo e Pechino.

Per motivi dinastici, però, i sovrani coreani della dinastia Joseon erano legati all'impero cinese di cui risultavano tributari. Scopo iniziale del governo giapponese fu, quindi, sciogliere il vincolo che legava i due paesi, aprendo in primo luogo la Corea al commercio estero. Nel paese conteso, le forze politiche si dividevano tra conservatori, filo cinesi, e riformisti, filo nipponici, i quali nel 1884, grazie all'appoggio militare nipponico, tentarono di rovesciare il governo, ma l'intervento cinese sedò in breve tempo la rivolta. Di conseguenza, la tensione tra i due contendenti aumentò.

In un primo momento, l'intervento armato fu sconfessato grazie alla convenzione di Tianjin del 1885, in cui le due parti decisero di abbandonare la Corea simultaneamente e di non intervenire nelle dispute interne al paese senza il consenso dell'altra parte. Ma pochi anni dopo, lo scontro divenne "inevitabile".

Il primo segnale di ostilità fu l'assassinio, nel 1893, di Kim Ok-kyun, rivoluzionario coreano filo-nipponico, il cui cadavere fu imbarcato su una nave militare cinese e mandato in Corea, dove fu squartato ed esposto come monito per gli altri ribelli. Un anno dopo, il governo cinese, su richiesta dell'imperatore coreano Gojong, inviò delle truppe per sopprimere la rivolta del movimento contadino Donghak.

In ottemperanza alla convenzione di Tianjin, il governo di Pechino informò il governo giapponese del sostegno offerto a Seul. Ma Tokyo considerò comunque l'invio dei 2.800 uomini guidati dal generale cinese Yuan Shikai una violazione dei precedenti accordi e rispose con 8.000 soldati diretti nella capitale coreana.

L'8 giugno del 1984 le milizie giapponesi sequestrarono l'imperatore e occuparono il Palazzo Reale di Seoul. In breve rimpiazzarono il governo esistente con membri della fazione pro-giapponese e imposero alla Cina di abbandonare il territorio coreano. Il mancato riconoscimento del nuovo governo da parte di Pechino portò alla prima guerra sino-nipponica, dichiarata ufficialmente il primo agosto dello stesso anno. La guerra fu per la Cina un vero disastro. In poco meno di un anno, la Marina Imperiale Giapponese riuscì a conquistare la maggior parte dei porti, sia marittimi che fluviali, della parte orientale della Cina, tanto da riuscire a controllare l'ingresso via mare per Pechino.

L'avanzata nipponica oltre ad essere imponente risultò devastante, soprattutto per la popolazione civile. L'esercito giapponese, infatti, fu accusato di aver massacrato circa 20,000 civili nella città di Lüshunkou (in seguito ribattezzata Port Arthur), nel novembre 1895 (l'episodio è passato alla storia proprio come il massacro di Port Arthur). La superiorità militare giapponese, grazie all'addestramento di molti suoi comandanti nelle scuole militari europee e alle navi costruite nei cantieri francesi e tedeschi, riuscì in brevissimo tempo a soppiantare l'esercito di Yuan Shikai, la cui unica forza consisteva nel numero di combattenti.

Il conflitto tra Cina e Giappone si concluse il 17 aprile 1895 con il trattato di Shimonoseki, in cui il paese sconfitto si impegnava a riconoscere l'indipendenza della Corea. Le condizioni più pesanti però riguardarono la cessioni territoriali. La Cina, infatti, fu costretta a cedere al Giappone la penisola di Liaodong (su cui era situata Port Arthur) a confine con la penisola nord orientale della Manciuria, Taiwan e le vicine isole Pescadores, nonché versare a Tokyo un indennizzo pari a 200 milioni di monete d'argento.

Da un punto di vista politico-commerciale, la guerra ebbe delle ripercussioni fortissime non solo in estremo oriente, ma anche in Europa. La Cina aveva perso lo scettro di "regina d'oriente" in favore all'avversario giapponese, il quale aveva dimostrato di poter competere anche con le potenze europee. La seconda metà del XIX secolo, coincise proprio con uno dei periodi più di massimo splendore per il Giappone. Salito al trono nel 1867, l'imperatore Meiji riuscì in quello che i suoi pari cinesi della dinastia Qing fallirono, cioè passare da un sistema arretrato, ancora basato sul feudalesimo, a quello moderno, fondato su una diversa organizzazione economica e sociale, in cui la produzione industriale e il libero mercato cominciavano a produrre le prime trasformazioni epocali.

Al tempo stesso, le nazioni europee, allarmate dalle mire espansionistiche nipponiche decisero di intervenire per impedirne l'insediamento in Manciuria. Il 23 aprile 1895, il cosiddetto Triplice Intervento, a cui presero parte, Russia, Germania e Francia bloccò l'ascesa giapponese nei territori nord orientali della Cina, confinante proprio con la Siberia. La Russia, infatti, occupò la penisole di Liaodong, mentre Francia e Germania ottennero diversi scali portuali e concessioni commerciali. La presenza occidentale in estremo oriente modificò del tutto l'asse geopolitico della regione, gettando la basi di quelli che saranno i conflitti del XXI secolo.

Di contro, la disfatta contro il Giappone gettò in una profonda crisi la classe politica e la stessa dinastia imperiale cinese, che, di lì a pochi anni sarebbe stata spodestata dalla movimento rivoluzionari di Sun Yat, che subito dopo al seconda guerra dell'oppio aveva fondato il partito nazionalista cinese (Zhongguo Guomindang). La rivolta dei Boxer fu il primo segnale dell'imminente crollo della dinastia imperiale.