La fine dell'Unione Sovietica
Da Gorbaciov all'ascesa di Putin
A metà degli anni '80, sulla scena politica sovietica, si affacciò un uomo nuovo che avrebbe aperto le porte dell'URSS all'occidente, al tempo stesso causandone il collasso e portando la nazione verso un'era di rinata libertà, ma anche tanta incertezza. Nel 1985, dopo la morte di Chernenko, Mikhail Gorbaciov, fu nominato segretario del Partito Comunista.
Gorbaciov era un leader giovane, appartenente ad una nuova generazione di politici, i primi ad aver cominciato la carriera politica dopo la caduta della dittatura stalinista, intenzionati a risollevare le sorti del paese, ormai in rovina. Al grido di glasnost (apertura) e perestroika (ricostruzione), il nuovo segretario introdusse una serie di riforme che avrebbero trasformato non solo l'URSS ma tutto lo scenario politico mondiale, ponendo fine a quasi cinquant'anni di guerra fredda.
Gorbaciov rimosse i vecchi burocrati di partito, per far spazio alle nuove generazioni di tecnocrati, lontani dai giochi di potere moscoviti. Fu allentata la censura, e per la prima volta la politica venne liberamente discussa sulla stampa. Un esempio fu il disastro nucleare di Chernobyl: per la prima volta, un leader russo ammise pubblicamente una falla nel sistema industriale e bellico della nazione, abbandonando la vecchia retorica di partito che nascondeva ai russi e al mondo intero le lacune che ormai, da anni, stavano minacciando l'esistenza stessa del paese.
Da un punto di vista economico, Gorbaciov cercò di slegare la produzione dalle decisioni di partito, favorendo l'iniziativa dei direttori industriali e agricoli. Nonostante gli sforzi del nuovo segretario, però, la situazione economica sovietica rimase grave, tanto che sul finire degli anni '80, si innalzarono le proteste dei minatori, e i beni di consumo sparirono dai negozi.
L'Unione Sovietica era al collasso. La politica estera di Gorbaciov spinse verso un avvicinamento tra Washington e Mosca, tale da portare al crollo del Muro di Berlino. Ma al tempo stesso, le azioni autonomiste delle repubbliche sovietiche aumentarono fino a smembrare l'URSS dal suo interno.
Il variegato puzzle di etnie, lingue e culture diverse che erano state inglobate all'interno dell'URSS cominciò a frantumarsi a partire dal 1986, con la rivolta anti-russa in Kazakistan. Nel 1988, iniziarono gli scontri tra armeni a prevalenza cattolici e i musulmani della repubblica dell'Arzeibajan, lo stesso accadde un anno dopo in Uzbekistan, tra turchi e uzbechi.
Intanto, tra il dicembre 1989 e il 1900 le repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania si proclamarono indipendent, mentre tra il 1990 e il 1991, aumentarono le manifestazioni contro Gorbaciov e il Partito Comunista (ormai ridotto all'osso per la defezione di molti suoi membri).
Nel giugno 1991 fu eletto presidente, per la prima volta con elezione diretta, Boris Yeltsin, le cui posizioni liberiste portarono alla fine dell'URSS. Il paese era sull'orlo del collasso. Le riforme di Gorbaciov in campo economico avevano sortito un effetto disastroso e l'opposizione contro il Partito Comunista cresceva a dismisura, come le rivolte nelle repubbliche della federazione. Nell'agosto dello stesso anno, un colpo di stato organizzato dai partiti d'opposizione (grazie al supporto del KGB) cercò di spodestare Gorbaciov, il quale rimase confinato nella sua villa presidenziale in Crimea.
Nonostante, il segretario del Partito Comunista fosse la vittima principale del tentato golpe, Eltsin colse l'occasione per mettere all'angolo il rivale, accusandolo di non aver avuto abbastanza polso da gestire la crisi.
Gorbaciov si vide costretto a rassegnare le dimissioni e il Partito Comunista venne messo al bando e i suoi beni confiscati. L'8 dicembre del 1991, l'Unione Sovietica venne ufficialmente sciolta. Il primo gennaio 1992, "nacquero" le prime nazioni indipendenti di Russia, Ucraina e Bielorussia. Dopo l'uscita di scena di Gorbaciov, la situazione a Mosca divenne sempre più incandescente.
Nel settembre 1993, Eltsin fu sfiduciato dal Parlamento e i gruppi d'opposizione intrapresero una dura protesta contro il presidente, tanto da assediare per due settimane il palazzo del Parlamento. La situazione precipitò quando circa 10.000 manifestanti ruppero il cordone delle forze dell'ordine, cercando di entrare nei palazzi del governo. Eltsin ordinò ai carro armati di sparare contro la folla. Negli scontri morirono almeno 100 persone. In un clima di violenza, vennero imprigionati i maggiori avversari di Eltsin e banditi i partiti d'opposizione, e il presidente riuscì a mantenere il potere e in qualche modo a rafforzarlo.
Un anno dopo fu votata la prima costituzione post-sovietica in cui il potere esecutivo era concentrato nelle mani del presidente, e ridotte le autonomie delle regioni. Obiettivo di Eltsin era sedare le spinte indipendentiste in Cecenia. In materia di politica estera, Eltsin continuò quella del suo predecessore. Nel marzo 1997 incontrò a Helsinki, il presidente americano Bill Clinton, accettando l'allargamento della NATO ad est, con l'impegno di non impiantare nei paesi dell'ex blocco comunista basi atomiche.
Ma la Russia si vide costretta a guardare ad occidente per motivi molto più "spiccioli". Sul finire del 1998, l'economia era sull'orlo del collasso, e senza l'appoggio finanziario di Stati Uniti e del Fondo Monetario Internazionale Mosca avrebbe rischiato la banca rotta. Gli insuccessi di Eltsin e il malcontento nei confronti della vecchia classe politica spianarono la strada all'ascesa dell'ex capo dei servizi segreti sovietici, il giovane Vladimir Putin, nominato primo ministro nel 1999.
[Nell'immagine: Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la pace nel 1990]
La questione cecena
Una delle regioni che, ancor'oggi, chiedono a gran voce l'indipendenza è la Cecenia, nell'area caucasica a confine con la Georgia. Alle spinte indipendentiste portate avanti in primis dal leader ceceno Dudaev, Mosca ha sempre tenuto la linea dura, reprimendo, spesso nel sangue, ogni forma di ribellione. Il motivo principale per cui Mosca rifiuta l'indipendenza della regione pare essere la presenza di petrolio sul territorio ceceno, nonché il passaggio di importanti gasdotti. La prima risposta armata russa arrivò nel 1994, quando Eltsin inviò 40.000 soldati in Cecenia. Solo nel 1996, fu siglata una tregua tra Mosca e Groznyi che, però, durò ben poco. Dopo la dichiarazione di uno stato indipendente Islamico in Dagestan ad opera dei separatisti ceceni, nel 1999, le truppe russe invasero nuovamente la repubblica caucasica e rasero al suolo la capitale. In risposta, gruppi separatisti guidati da Shamil Basayev, lanciarono azioni terroristiche per chiedere il ritiro delle truppe russe. Basayev, infatti, è considerato responsabile del sequestro del Teatro Dubrovka di Mosca nel 2002, e il del massacro della scuola di Beslan, in Cecenia, nel 2004, in cui persero la vita 331 persone tra cui 186 bambini. Ancora adesso, la questione cecena rimane una spina nel fianco per Mosca, in particolar modo dopo le tensioni in Georgia di agosto 2008.
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