Con una decisione annunciata il 1° dicembre del 2009, ma elaborata già nello scorso mese di novembre, il Presidente americano Barack Obama ha annunciato l'invio di 30.000 nuovi soldati in Afganistan entro l'estate del 2010.

Obama ha risposto in tale maniera alla richiesta del generale Stanley McCrystal, il quale presentò un rapportò al Congresso nell'agosto del 2009 chiedendo l'invio di 40.000 soldati in più per non perdere la guerra.

Tale richiesta e la conseguente risposta del Presidente ha ricordato ai più l'escalation in Vietnam. Come in Indocina, la richiesta venne fatta da un generale (allora si trattava di William Westmoreland), e come in Indocina molti pensano che si tratta di prolungare una guerra che dovrebbe già essere conclusa, vista l'impossibilità di vincerla.

Barack Obama ha impiegato tre mesi per prendere questa decisione. Per il Presidente democratico si è trattata di una scelta ragionata, difficile, sia per gli avvenimenti che si sono susseguiti da agosto in poi, sia per le difficoltà sul fronte interno che sta affrontando (vedi i tentativi di riforma sanitaria e la divisione all'interno dello stesso partito democratico).

Aumentare o meno il proprio contingente in Afghanistan non è certo una scelta che poteva essere presa in poco tempo, viste le implicazioni politiche, militari, regionali, ma soprattutto in tempi di crisi, finanziarie che tale scelta comporta. Ma fin dalla campagna elettorale del 2008 l'Afghanistan è stato definito una priorità a cui Obama non voleva rinunciare, a differenza della guerra in Iraq.

E se fin da prima di assumere la presidenza Obama ha indicato nella regione tra Afghanistan e Pakistan (il cosiddetto AfPak) il reale obiettivo della azione militare alleata, era scontato anche l'aumento dei militari USA sul terreno.

Probabilmente Obama e la sua amministrazione speravano che le elezioni dello scorso agosto avrebbe rafforzato la legittimità del governo di Karzai, verso cui però lo stesso Obama risulta molto più sfiduciato rispetto a Bush. Ma la storia ci insegna che le montagne afghane non sembrano un posto ideale per la speranza.

Nonostante gli attacchi dei Talebani, e grazie anche all'aumento dei contingenti ISAF (International Security and Assistance Force) della NATO (l'Italia ha ad esempio inviato 400 carabinieri in più), le elezioni si sono tenute ed hanno visto la vittoria al primo turno di Karzai. O meglio una vittoria ottenuta grazie a brogli massicci, denunciati dalla Commissione elettorale che ha costretto al ballottaggio Karzai con l'altro candidato Abdullah Abdullah. Ballottaggio poi annullato grazie al rifiuto di Abdullah.

Questa politica bizantina ed a tratti incomprensibile nasconde una lunga sequela di errori: innanzitutto la ferma volontà di effettuare elezioni in un paese in preda alla guerra civile tra Talebani, milizie governative e truppe alleate. In secondo luogo i brogli attuati dal Presidente Karzai, che hanno certificato, semmai ce ne fosse bisogno, la corruzione imperante di questo regime. In terzo ed ultimo luogo si è sfiorato il rischio di un ballottaggio che avrebbe offerto l'occasione ai fondamentalisti di replicare i propri attacchi durante le elezioni.

Se consideriamo tutto questo quadro da occidentali ci sembra un quadro abbastanza complesso, ma se proviamo a guardarlo con gli occhi di una popolazione non abituata all'esercizio democratico come gli afghani ciò che è successo è semplicemente incomprensibile.

Il passare del tempo gioca sempre a favore degli insorti, poiché le truppe alleate non possono restare in Afghanistan in eterno, pena la conferma del carattere colonialista dell'intervento, come denunciato dal mullah Omar. Ed in questi tre mesi si è verificato un aggravarsi della situazione in Pakistan, al cui confine afghano, nel Waziristan e nel NWFP (North West Frontier Province), il governo di Ali Zardari ha deciso su pressione USA un attacco deciso nei confronti dei Talebani che ha ripercussioni concrete anche nel vicino Afghanistan. L'importanza del quadro regionale emerge in considerazione anche della vicinanza dell'Iran, su cui si giocano però ben altri interessi (nucleari).

Tale precipitare della situazione ha fatto riflettere molti occidentali sulla necessità di sostenere una guerra lunga e dai costi elevati, in termini di permanenza di truppe all'estero, di finanziamenti per la ricostruzione civile dell'Afghanistan (peace building) e soprattutto di vittime sul terreno. Bisogna dire che il ritardo con cui Obama ha effettuato questa scelta è stato agevolato anche dalla corresponsabilità dei suoi alleati occidentali, molti dei quali restii ad inviare truppe aggiuntive a Kabul e dintorni, per non sfidare troppo apertamente un'opinione pubblica decisamente contraria (vedi Germania e soprattutto Francia).

L'unico aspetto positivo della scelta di Obama è stato stabilire la data dell'inizio del ritiro delle truppe americane nel 2011. L'indicazione di un tempo limite è una sorta di timeline utilissima per l'opinione pubblica interna, che vede finalmente una luce alla fine del tunnel. E considerando che nel 2012 si terranno le prossime presidenziali Obama potrà agevolmente dimostrare ai suoi di aver iniziato il ritiro da Kabul e dintorni, prenotando agevolmente un nuovo mandato.

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Vietnam e Afghanistan: uno ''scacco''speculare di Gabriele Balboni
L'Afghanistan dopo la caduta dei Talebani di Stefano Severi.

Umberto Profazio
Institute for Global Studies