La storia della montagna che partorisce un topolino è un’immagine ormai abusata da tutti. Ma è quanto è successo al vertice di Copenaghen, in Danimarca, dove dopo due settimane d’intensa negoziazione, fra problemi organizzativi e manifestazioni no-global, al Bella Center non ci si è riusciti a mettere d’accordo praticamente su niente.

L’obiettivo principale era quello di ridurre drasticamente le emissioni di anidride carbonica per evitare che il nostro Pianeta sia sconvolto dai cambiamenti climatici, sempre più evidenti nell’ultimo secolo.

L’aumento della temperatura terrestre, registrata dalle più importanti agenzie meteorologiche internazionali, è correlato all’inquinamento diffuso della Terra, responsabilità principale dei Paesi industrializzati.

Le ricerche scientifiche che si sono susseguite negli anni sono divenute sempre più accurate, ed hanno dimostrato che l’emissione di agenti inquinanti ha creato un effetto serra più o meno rilevante a seconda della propensione al catastrofismo da parte di alcuni o di un normale ciclo geologico per altri eminenti scienziati internazionali.

La responsabilità principale dell’inquinamento è fuor di dubbio dell’Occidente, colpevole della moltiplicazione delle emissioni almeno dalla Prima rivoluzione industriale in poi. Ed è su questa responsabilità che hanno fatto leva la maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, e dei nuovi giganti dell’economia mondiale, come Cina, India, Brasile e Sudafrica, raggruppati sotto diverse sigle che nonostante la diversità rappresentavano unicamente il fronte oltranzista del vertice.

Tutti i tentativi di mediazione per salvaguardare il Pianeta si sono, infatti, scontrati con l’impossibilità da parte dei Paesi in via di sviluppo di accettare la riduzione drastica delle emissioni nocive: impossibilità dovuta ad una lunga serie di fattori. Basta pensare alla difficoltà di organizzare in tempi relativamente brevi una riconversione industriale che adotti tecnologie più pulite, da parte di Paesi tecnologicamente limitati; all’esosità che tali innovazioni tecnologiche comportano; all’esigenza di garantire lo sviluppo economico di una popolazione al di sotto della soglia di povertà per quei Paesi che stanno registrando tassi di sviluppo a due cifre (in particolare Cina ed India).

Da qui l’opposizione di questi Paesi alla riduzione delle emissioni nocive nei prossimi anni. Ma non sono stati solo in nuovi arrivati a mettere in crisi le negoziazioni in Danimarca: nonostante la svolta ecologica della presidenza Obama, gli Stati Uniti sono stati costretti a partire praticamente dal via a causa della mancata ratifica del protocollo di Kyoto negli anni precedenti, accumulando grossi ritardi che la nuova amministrazione tenterà di colmare, ma che rischiano di aver già provocato grossi danni agli ecosistemi mondiali (gli USA insieme alla Cina, producono le maggiori emissioni di gas serra nel mondo).

E la tanto decantata Europa, frontiera della rivoluzione ambientale del terzo millennio con il suo obiettivo del 20-20-20 (la riduzione del 20% delle emissioni nocive entro il 2020), non esita a sfruttare le esternalità ambientali offerte dal mercato, andando a delocalizzare le proprie imprese nel Terzo mondo, dove la legislazione ambientale è più favorevole e consente un abbattimento dei costi di produzione.

Insomma si tratta di una materia complessa che i vari partecipanti alla Conferenza sul Cambiamento Climatico sono riusciti sommariamente a risolvere così: un accordo parziale, non vincolante, che si basa sull’intesa tra USA, Cina, India e Sudafrica per evitare che il riscaldamento globale aumenti di 2° entro il 2100.

Con una serie di finanziamenti ai Paesi in via di sviluppo per finanziare la loro conversione alle energie pulite: 10 miliardi di dollari subito con la possibilità di arrivare a 100 miliardi l’anno a partire dal 2020. Paradossalmente, come riporta Antonio Cianciullo di Repubblica, gli Stati si sono messi d’accordo sull’unico punto non nelle loro disponibilità: il clima terrestre. Quando l’unico modo di tenere sotto controllo la situazione (e sorvegliare attentamente quanto facevano gli altri) era la riduzione delle emissioni, che avrebbe chiesto ben altri impegni ai partecipanti. I suggerimenti degli scienziati richiedevano una riduzione delle emissioni del 25-40% entro il 2020 e del 50% entro il 2050.

Il peccato originale di quest’accordo è però la sua mancata obbligatorietà. Non essendo vincolante, non impegna coattivamente gli Stati, che a questo punto sono liberi di concedere o meno i finanziamenti ai PVS. Con buona pace degli Stati insulari dell’Africa e del Pacifico, minacciati dall’aumento del livello del mare a causa del surriscaldamento globale derivante dall’effetto serra. Propriamente, con un brutto quanto profetico gioco di parole, si potrebbe dire che si naviga a vista.

Per approfondire, consigliamo le tesi:
Tutela internazionale dell'ambiente di Valentino Angarano
Globalizzazione e salvaguardia dell'ambiente di Giuseppe Cotturri




Umberto Profazio
Institute for Global Studies