Il 7 marzo 2010 si è tenuta al Kodak Theatre di Los Angeles la cerimonia di consegna degli Oscar, che hanno visto vincitrice Katheryn Bigelow ed il suo The Hurt Locker.

Il miglior film, che ha superato il colossal fantascientifico Avatar, dell’ex marito della stessa Bigelow, descrive le operazioni di una squadra di marines degli Stati Uniti specializzata nel disinnescare mine ed oggetti esplosivi improvvisati in Iraq.

Per uno strano scherzo del destino, nello stesso giorno in cui The Hurt Locker vinceva l’Oscar come miglior film, in Iraq si sono tenute le seconde elezioni politiche della breve storia repubblicana del Paese, ed il risultato è esploso in mano agli osservatori interni ed internazionali, proprio come farebbe un qualsiasi improvised explosive device (i.e.d., in gergo).

Gli apprezzamenti per la vittoria della democrazia nel mondo arabo, con gli elettori che sfidavano le bombe e gli attentati kamikaze per recarsi al seggio più vicino, si sono letteralmente sprecati. Ma nonostante tale convinta soddisfazione di molti osservatori internazionali, i problemi si sono rivelati ben più gravi di quanto fosse lecito aspettarsi.

A più di un mese dalle elezioni, infatti, l’Iraq non ha ancora nominato un Primo Ministro. I risultati latitano non solo per la difficoltà di far convogliare tutti i voti espressi nelle più remote province del Paese, ma anche per le ripetute accuse di brogli che contrappongono i due attori principali dello scontro elettorale: il Primo Ministro uscente Nuri Al-Maliki ed il suo predecessore

Ayad Allawi. Al-Maliki è a capo del partito Alleanza per uno Stato di diritto, espressione della maggioranza sciita della popolazione irachena, mentre Allawi è a capo di Iraqiya, ossia il Blocco iracheno, espressione laica che convoglia tra le sue file la minoranza sunnita oltre ad ex membri del partito Baath che non siano stati coinvolti eccessivamente con il regime precedente di Saddam Hussein. Ed è proprio ad Allawi che secondo le ultime stime dovrebbe essere assegnata la vittoria: Iraqiya avrebbe ottenuto nel Parlamento iracheno due seggi in più dell’Alleanza per uno Stato di diritto (91 ad 89).

Ma Al-Maliki ha immediatamente disposto un’inchiesta con cui avanza dubbi su 750.000 schede, abbastanza per modificare i risultati delle elezioni. L’inchiesta disposta da al-Maliki, che ricordiamo è ancora il Primo Ministro in carica dello Stato iracheno, si è concentrata nelle provincie più popolose di Bassora, Baghdad, Quadissya, Anbar e Ninive ed ha stimato che tali voti irregolari lo avrebbero privato di circa 15 seggi.

Al-Maliki ha quindi presentato ricorso contro le elezioni del 7 marzo, e la Commissione d’appello dovrà pronunciarsi sulla regolarità delle stesse. Non si sa ancora quando saranno resi noti i risultati ufficiali delle elezioni, ma già da tutta questa intricata vicenda si possono tirare le prime conclusioni: comunque vadano le cose nè Allawi, nè Al-Maliki disporrebero dei seggi necessari per governare senza coalizioni di sorta, per cui è prevedibile che tali manovre sul conteggio dei voti servano solo a definire le posizioni di forza delle due compagini in vista di un successivo accordo.

In secondo luogo il vuoto di potere a Baghdad che dura da più di un mese ha messo a dura prova la capacità dello Stato iracheno di reggere alla forza d’urto del terrorismo islamico: sia durante lo svolgimento delle elezioni sia nei giorni immediatamente successivi si sono moltiplicati gli attentati contro la popolazione civile e le forze di polizia dello Stato iracheno con esplosioni che hanno provocato centinaia di vittime e migliaia di feriti. Al-Quaeda aveva minacciato esplicitamente la popolazione irachena, considerando le elezioni un grave crimine politico orchestrato dagli sciiti.

E qui subentra il discorso sulla difficoltà di concilare le due differenti componenti etniche dello Stato iracheno, quella sunnita e quella sciita (senza contare quella curda nel nord del Paese). I sunniti hanno deciso di partecipare per la prima volta alle elezioni, dopo aver boicottato quelle del 2005 che hanno consentito per la prima volta alla maggioranza sciita di prendere il potere dopo la dittatura di Saddam Hussein; gli sciiti invece, preoccupati dall’entrata in gioco dei sunniti, sono giocoforza costretti a ripiegare su un più stretto legame con il vicino Iran, più che contento nell’allungare la sua sfera di influenza verso il Tigri e l’Eufrate.

Resta poi da affrontare il discorso forse più impegnativo politicamente: ossia la difficoltà di tenere consultazioni elettorali in territori in cui le popolazioni non sono di certo abituate all’esercizio del voto. E non certo per diffidenza verso gli elettori e le loro capacità intellettive di questa parte del mondo. Sia l’esempio dell’Afghanistan l’anno prima, che quello in Iraq quest’anno non hanno fatto altro che dimostrare che le frodi elettorali sono cospicue e la corruzione spesso invalida interamente il voto conseguito con tanti sacrifici da questi territori minati da malaffare e corruzione.

E per sradicare e sminare tali vizi non basterà di certo nessuna squadra speciale di “hurt lockers”.

Per approfondire, consigliamo le tesi:
Iraq, quale democrazia? di Enrico Ferrandu
Possibilita' ed autonomia della democrazia nei paesi islamic di Giovanni Carullo

Umberto Profazio
Institute for Global Studies