Durante lo scorso mese di aprile la crisi della Grecia ha allarmato molti economisti, politici e commentatori. Ma quello che potrebbe essere considerato un caso isolato sta in realtà dilagando velocemente in tutta Europa, e non è altro che la ripercussione principale di quello che è avvenuto negli Stati Uniti d’America giusto un paio di anni fa.

La crisi economica che sta piegando il mondo finanziario globale è divenuta molto simile per cause ed effetti a quella del 1929.

La pedissequa correlazione tra quello che avvenne a cavallo degli anni ’30 del secolo scorso e quello che sta avvenendo alla fine degli anni ’10 del nuovo millennio ha comunque dell’incredibile. Il panico finanziario che ha scosso l’America nelle sue fondamenta (e mai termine fu più appropriato con riferimento al mercato immobiliare statunitense, il cui fallimento ha scatenato il tutto) ha varcato l’Atlantico, come presumibilmente doveva essere.

Nell’epoca della globalizzazione, in cui sono cadute le barriere agli scambi economici e finanziari, ed in cui la mobilità dei capitali è elevatissima, ogni problema che si verifichi in un qualsiasi Paese mondiale non fa altro che ripercuotersi sugli altri Paesi in maniera repentina ed immediata.

Con un effetto panico che aumenta minuto dopo minuto, in cui persino un errore di battitura di una cifra sulla tastiera fa cadere Wall Street del 9% in un paio d’ore: cosa che è effettivamente successa nei giorni scorsi. La suscettibilità del mercato in tempi di recessione è d’altronde elevatissima, infinitamente flessibile direbbero gli economisti, e sorprenderebbe persino lo stesso Marx, riscoperto non a caso proprio in questi anni. Il filosofo di Treviri le crisi cicliche del capitalismo le aveva sì previste, ma non in queste dimensioni e nel contesto della globalizzazione odierna.

Sicuramente un minimo sentore di quello che poteva accadere c’era. La crisi del 1929 ci mise qualche anno ad arrivare in Europa: nel 1931 contagiò l’Inghilterra che fu costretta ad abbandonare il gold standard, ossia il sistema di cambi fissi e di parità aurea che aveva governato l’economia mondiale dalla nascita del capitalismo moderno in poi.

Da qui l’effetto a cascata sulla Francia, che attraversò una forte instabilità economica e politica che durò fino alla Seconda Guerra Mondiale; e sulla Germania, che non poté più garantire le riparazioni ai vincitori della Grande Guerra e che attraversò una profonda recessione di cui approfittarono le forze nazionalsocialiste di Hitler, che proprio in questi anni posero le basi per i loro successi futuri. E nel nuovo millennio le cose non potevano andare diversamente, poiché il panico finanziario causato dai titoli derivati scatenatosi nel 2008 a Wall Street è approdato celermente in Europa, puntando prima gli anelli deboli della catena e poi il bersaglio grosso: l’euro.

In un primo momento infatti la crisi economica ha investito i Paesi più deboli, proprio come un virus qualunque farebbe con i sistemi immunitari più bassi: è toccato prima all’Irlanda, un tempo il Paese europeo con la più alta crescita economica interna in termini di Prodotto Interno Lordo e con la più alta concentrazione di multinazionali americane, agevolate dalla permissività fiscale e dalla lingua comune; poi nell’arco di poco tempo la Spagna, sgonfiando la bolla speculativa del suo apparentemente ricco mercato immobiliare, ed il Portogallo, confinato dalla sua posizione geografica e dalla sua debole crescita economica ai margini dell’Europa; ed infine ecco la Grecia, entrata nel club dell’euro senza aver soddisfatto nessun requisito minimo di appartenenza.

Il motivo si è scoperto dopo, quando si è appreso il modo in cui lo Stato greco ha camuffato e falsificato i dati economici per soddisfare i parametri di Maastricht, con l’aiuto compiacente delle più importanti istituzioni finanziarie americane, in particolare di Goldman Sachs, grande banca d’affari statunitense ma anche vero e proprio governo ombra di ogni amministrazione USA. Le bugie hanno le gambe corte, ed Atene sta imparando a sue spese questa ovvietà. Anzi, la stanno imparando i cittadini greci, sulle cui spalle ricadrà il costo della crisi in termini di salari e pensioni tagliate, flessibilità del mercato del lavoro e maggiore pressione fiscale per rientrare dall’elevato debito pubblico.

Tutte condizioni che l’Europa ha posto prima di approvare agli inizi di maggio tra mille difficoltà e veti incrociati il pacchetto di aiuti in combinazione con il Fondo Monetario Internazionale: 110 miliardi di euro in 3 anni, 80 a carico dell’Europa e 30 a carico del FMI per far rientrare lo Stato ellenico dal pericolo di un’espulsione dalla zona euro, catastrofica per l’immagine e la reputazione dell’intera costruzione europea. Una soluzione che ha permesso all’euro di prendere un po’ di respiro, poiché ad essere sotto attacco è adesso proprio la costruzione monetaria europea, solida ma non accompagnata da una altrettanto solida costruzione politica, soprattutto in materia di politica fiscale comune e di diminuzione del debito pubblico. Ed a proposito di debito pubblico, anche l’Italia non è sicuramente in condizioni ottimali, e già la speculazione dopo aver travolto i cosidetti PIGS (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) vorrebbe aggiungere un’altra “I” alla schiera dei suoi successi internazionali. Naturalmente il tempo ci dirà chi l’avrà vinta.

Umberto Profazio
Institute for Global Studies