Dopo la morte di Lenin, il 21 gennaio 1924, salì al potere Josif Stalin (all'anagrafe Josif Vissarionovic Džugašvili, Stalin, infatti, è il suo soprannome, che vuol dire d'acciaio). Partito da Gori, un piccolo paese rurale della Georgia, Stalin è stato, nel bene e nel male, una delle figure politiche più significative del novecento, capace di trasformare non solo l'URSS, ma di lasciare un'impronta indelebile negli equilibri geopolitici di tutto il secolo scorso.

Sul fronte interno, il nuovo leader portò la Russia verso la costruzione della dittatura "proletaria". Il Partito Comunista divenne l'unico partito nazionale e il russo la lingua ufficiale dell'intera Unione Sovietica, i cui confini includevano il Caucaso, la Georgia, l'Armenia e l'Azerbaigian. Nel 1929 l'agricoltura fu statalizzata, a suon di esecuzioni sommarie dei contadini che si opponevano alla riforma. Lo stesso anno, con un piano quinquennale Stalin fortificò la produzione industriale, facendo dell'Unione Sovietica uno dei paesi più industrializzati al mondo.

La sua politica fu senza dubbio dittatoriale: Stalin, infatti, mise all'angolo ogni forma di opposizione. Fino a uccidere i suoi avversari politici, anche all'interno del partito. Come nel caso di Leon Trotsky, contrario all'esportazione della Rivoluzione nei territori confinanti, fu espulso dall'URSS nel 1929 e ucciso in Messico nel 1940 dai sicari inviati da Mosca. Dopo i successi della Seconda Guerra Mondiale, simboleggiati dalla rovinosa campagna di Russia italo-tedesca, la posizione di Stalin divenne sempre più salda, sia all'interno del partito che tra il popolo sovietico. Lui era il leader della "Grande Guerra Patriottica".

Dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale, l'URSS uscì come una delle nazioni vincitrici. A Yalta, in Crimea, e a Potsdam in Germania, Stalin sedette assieme al Primo Ministro britannico, Winston Churchill e al presidente USA, Henry Truman per definire gli accordi che avrebbero rivoluzionato gli equilibri geopolitici e riscritto i confini dell'Europa postbellica.