Il genocidio in Ruanda
Un milione di persone massacrate in 100 giorni
Negli anni successivi all’indipendenza, la vita politica ruandese fu relativamente stabile, ma dal 1986 la situazione cominciò a diventare sempre più calda, con la salita al potere in Uganda di Yoweri Museveni appoggiato dai gruppi armati di Tutsi rifugiati nel paese.
Due anni dopo, Paul Kagame, figlio di una famiglia Tutsi rifugiatasi in Uganda dopo gli scontri del 1960, fondò il Fronte Patriottico Ruandese (RPF, dal francese Rwandese Patriotic Front), intraprendendo proprio dalla nazione confinante una serie di azioni di guerriglia contro gli Hutu fino ad invadere il Ruanda nel 1990, anno in cui scoppiò l’ennesima guerra civile tra le due etnie.
Nonostante un continuo di armistizi e brevi "cessate il fuoco", gli scontri durarono fino al 1993, quando, grazie alle pressioni internazionali, furono siglati gli accordi di Arusha (Tanzania) in cui rappresentanti Hutu e RPF si impegnavano a formare un governo di riconciliazione.
Dopo solo due mesi, la situazione precipitò nuovamente in seguito all’assassinio di Melchior Ndadaye, il primo presidente Hutu eletto in Burundi. La rivolta scoppiata in Burundi dilagò anche in Ruanda, rompendo i già fragili accordi di Arusha. Ma la scintilla che portò al genocidio fu accesa nell’aprile del 1994, quando con un attacco missilistico, presumibilmente ad opera del RPF, venne distrutto l’aereo sul quale viaggiavano i presedenti Hutu di Ruanda e Burundi.
In risposta, da aprile a giugno le milizie paramilitari Hutu, chiamate Interahamwe, uccisero circa un milione di persone, senza fare troppe distinzioni tra le due etnie. La risposta da parte internazionale fu lenta e incapace di fermare il massacro, sebbene dal 1993 fosse presente nella regione la Missione di Assistenza delle Nazioni Unite per il Ruanda. Nel frattempo che la guerra civile infuriava, il RPF avanzò fino a conquistare la capitale Kigali. Circa due milioni di Hutu abbandonarono il paese rifugiandosi nei paesi confinanti.
Tra questi, però, fuggirono anche diversi membri dell’Interahamwe che usarono i campi profughi come basi per lanciare nuovi attacchi contro il governo di Kagame, causando la cosiddetta crisi dei rifugiati dei Grandi Laghi innescando una nuova escalation di violenza, sfociata nella prima guerra del Congo del 1996. Il RPF di Kagame appoggiò gruppi ribelli in Zaire che spodestarono il presidente Mobutu Sese Seko, ribattezzando il paese Repubblica Democratica del Congo. Grazie a una tale strategia, Kagame riuscì a rimpatriare molti dei militanti Interahamwe. In una situazione politica e militare così precaria, molte organizzazioni umanitarie furono costrette a lasciare la regione.
[Nell'immagine: Foto commemorative di alcune vittime del genocidio]
Il genocidio e la comunità internazionale
Per accertare e punire i responsabili del genocidio, le Nazioni Unite istituirono ad Arusha un Tribunale Penale Internazionale, il quale condannò all’ergastolo, tra gli altri, l’ex primo ministro ruandese, Jean Kambanda. Le deposizioni di Kambanda ribaltarono completamente le tesi di gran parte della comunità internazionale, secondo le quali il genocidio era stata una risposta spontanea delle milizie Hutu in seguito all’avanzata delle truppe Tutsi. In realtà, come riportato nel libro Conspiracy To Murder - The Rwandan Genocide di Linda Melvern, Kambanda ammise che il governo era al corrente del genocidio, apertamente appoggiato dai suoi ministri. Parallelamente, le istituzioni ruandesi si occuparono di processare gli imputati considerati “minori”, istituendo i Gacaca, tribunali delle comunità, nei quali vennero processati 120,000 persone accusate di genocidio e crimini contro l’umanità, ma secondo stime riportate dall’Human Rights Watch ci vorranno altri 110 anni per processare tutti gli imputati.
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