Domani si aprirà a Charlotte, nella Carolina del Nord, la Convention Democratica e la campagna elettorale per l'elezione del 45° presidente degli Stati Uniti entrerà nel vivo. La settimana scorsa a Tampa in Florida si è chiusa quella Repubblicana che ha portato alla nomina di Mitt Romney e del vice Paul Rayan come sfidanti di Barack Obama e Joe Biden. Gli ultimi sondaggi danno i due candidati attestati entrambi attorno al 46%, anche se l'electron day è ancora lontano (il prossimo 6 novembre). E, come la storia recente insegna, le cose possono cambiare da un momento all'altro.

Basta pensare alla vittoria di George W. Bush nel 2000 contro il candidato democratico Al Gore, il quale perse per soli 538 voti (in questo modo i 27 elettori della Florida passarono al repubblicano, permettendogli di conquistare la Casa Bianca). In effetti, il sistema elettorale americano per l'elezione del presidente (da non confondersi con quello politico per la composizione del Congresso) è uno dei più complessi al mondo.

A differenza di quanto possa sembrare, l'elezione del presidente non è diretta. Anche se gli elettori indicano la preferenza per questo o quel candidato, in realtà danno il proprio voto ad un grande elettore. Ogni stato americano, infatti, elegge un numero di grandi elettori proporzionale al numero degli abitanti (la California, con una popolazione di 35milioni elegge 55 grandi elettori, mentre il Vermont, con solo 600mila abitanti, ne elegge 3). Il numero dei grandi elettori è 538, e per vincere il presidente deve conquistarne almeno 270.

Il sistema elettorale con cui vengono nominati i grandi elettori è l'uninominale secco, il cosiddetto winner takes it all (il vincitore si prende tutto), cioè il candidato presidente che ottiene il 50%+1 si prende tutti i grandi elettori che elegge il singolo stato. Gli unici a fare eccezione, e che hanno un sistema elettorale di tipo proporzionale, sono il Nebraska e il Maine. Una volta fatta la conta dei voti, il 15 dicembre i grandi elettori si riuniscono per nominare il presidente. In caso di parità dei due candidati, la decisione viene demandata alla Camera dei rappresentanti che sceglie il presidente fra i tre candidati che hanno ottenuto il maggior numero di voti elettorali (i quali sono disgiunti da quelli per l'elezione del presidente).

Esistono anche casi di tradimenti. Nel 1988, Margaret Leach, che avrebbe dovuto eleggere il democratico Michael Dukakis, votò per il candidato alla vice presidenza, il senatore Lloyd Bentsen. Il voto della Leach non avrebbe comunque cambiato le sorti: Dukakis era stato superato di misura da Ronald Reagan. Nel 1976, fu un grande elettore repubblicano dello stato di Washington che invece di votare per lo sconfitto Gerald Ford votò, anticipando i tempi, per Reagan.

Un sistema così complesso riflette la visione, in qualche modo elitaria, dei padri fondatori della Costruzione del 1787. L'impossibilità di eleggere in maniera diretta il presidente, infatti, fu introdotta per evitare le "passioni popolari", lasciando ai grandi elettori (quindi figure politiche) la "responsabilità" di nominare il presidente. Come se non bastasse, negli Stati Uniti votare non è un esercizio al quale si può accedere direttamente. Bisogna iscriversi - in alcuni casi mesi prima delle elezioni - alle liste elettorali e nel farlo bisogna dichiarare anche l’appartenenza politica: democratico, repubblicano, o indipendente. Nulla di più lontano dal nostro concetto di segretezza del voto.