Il Ghana è oggi comunemente considerato un modello positivo di sviluppo economico e politico. Questo paese ha saputo gestire ben due cambi di governo in modo pacifico e democratico e mantenere una crescita costante per tutto lo scorso decennio. A detta di diversi osservatori, una delle maggiori ragioni di questo successo risiede nel prezioso ruolo svolto dai capi tradizionali, che hanno saputo essere efficaci mediatori tra i progetti di sviluppo finanziati dai grandi organi multinazionali, i meccanismi di funzionamento di un moderno stato democratico ed i bisogni della popolazione delle realtà rurali. L’ultima costituzione democratica, approvata nel 1992, è considerata il fondamento di questo particolare equilibrio che ha permesso, dalla sua approvazione ad oggi, lo svolgimento di ben 5 elezioni i cui risultati sono stati accettati da tutte le parti in campo e garantito coesione politica e crescita economica.

Ho visitato questo paese, da studente di Antropologia, nel 2008, alla vigilia dell’ultima tornata elettorale, per capire quale fosse il ruolo svolto dai capi tradizionali nei progetti di sviluppo. A guidarmi verso questo tema fu una conversazione con una professoressa di Antropologia dell’università di Accra, capitale ghanese, la quale mi spiegò come, in virtù del loro tradizionale ruolo di custodi della terra, i capi tradizionali sono attori fondamentali dello sviluppo: non esistendo, infatti, una formale proprietà privata della terra, è il capo tradizionale ad esercitare il controllo su di essa, in virtù del suo ancestrale legame con gli antenati, gli unici legittimi proprietari terrieri. Inoltre, dal momento che i capi tradizionali tendono ad avere, nelle loro comunità, un prestigio ed una legittimità maggiore rispetto ad ogni altra forma di autorità, ONG e funzionari statali li coinvolgono sempre più nei progetti inerenti realtà rurali.

Alla luce di queste considerazioni, lo scopo della mia ricerca di terreno era di capire la natura di questo ruolo e le dinamiche ad esso correlate. I capi tradizionali sono solo degli intermediari che usano il loro ruolo per trarre vantaggio dalle iniziative finalizzate allo sviluppo o sono effettivamente in grado di esprimere i bisogni delle comunità interessate dagli interventi? Il loro ruolo è necessario in quanto legalmente sono loro a “custodire” la terra, in un contesto in cui la proprietà privata dei terreni formalmente non esiste, o la loro partecipazione è un valore aggiunto per la qualità e l’efficacia dei progetti? Infine, si tratta di autorità che sono armonicamente inserite nell’assetto democratico istituzionale ghanese, rendendolo più vicino ai bisogni del terreno, o il loro ruolo è in qualche modo in contraddizione o competizione rispetto a quello delle autorità democratiche? Per rispondere a questi interrogativi, ho trascorso tre mesi in una zona rurale del Ghana occidentale, intervistando una trentina di capi tradizionali e osservando le dinamiche correlate allo sviluppo in vari villaggi del distretto di Sefwi Wiawso.

La mia prima preoccupazione è stata cercare di capire cosa si intendesse con sviluppo. Avevo chiaro in mente il significato di questo vocabolo nel nostro immaginario ed il campionario di progetti ed iniziative per realizzarlo. A colpirmi, del contesto di Sefwi Wiawso, furono due cose. In primo luogo, lo sviluppo sembrava essere, nelle parole di tutti, lo scopo ultimo di ogni iniziativa politica, il massimo risultato cui un buon governante deve aspirare. Essendo acriticamente considerato come qualcosa di positivo, ne conseguiva che l’abilità di qualsiasi forma di autorità politica consistesse nella capacità di riuscire a garantire il maggior numero possibile di progetti nel suo territorio e di consentire una rapida realizzazione di quelle infrastrutture, quali la corrente elettrica o le strade asfaltate, considerate l’emblema stesso dello sviluppo. Le discussioni tra i locali non erano mai riguardo a che tipo di sviluppo si desiderasse per il proprio villaggio o quali fossero le conseguenze dei precedenti interventi, bensì focalizzati su chi e come fosse in grado di garantire il maggior numero di progetti e di attuarli senza troppi impedimenti.

Il tentativo di capire, al di là di questo entusiasmo generalizzato, cosa intendessero gli abitanti di Sefwi Wiawso con “sviluppo”, mi portò al secondo elemento di interesse. Notai, infatti, come, mentre per molte parole moderne gli stessi Sefwi utilizzassero vocaboli inglesi, in quanto non vi erano corrispettivi nella lingua locale, lo sviluppo veniva invece definito attraverso un vocabolo indigeno, nkosuo. Non si trattava, pertanto, di una pratica inventata ed importata dagli occidentali con la colonizzazione e poi rimasta quale fonte di legittimità della forme di autorità postcoloniali, bensì di un concetto indigeno, già utilizzato prima che l’arrivo degli inglesi, sul finire dell’800, mutasse radicalmente l’organizzazione politica e socioeconomica del paese. Capire se ci fossero differenze tra nkosuo e sviluppo e quali fossero, così come se e quale fosse il legame tra potere politico e nkosuo prima della colonizzazione diventarono le priorità della mia ricerca.

A questo scopo, trovai molto utile intervistare un maestro di scuola secondaria locale, che aveva svolto una ricerca riguardo al passato della regione e composto un breve resoconto storico su di essa. In questa conversazione appresi come il nkosuo, in origine, designasse il disboscamento di un appezzamento di terreno al fine di rendere possibile l’attività agricola. In una società tradizionalmente contadina quale quella Sefwi la capacità di garantire la sicurezza e la fertilità dei terreni coltivabili era un prerogativa fondamentale per i capi. Vivendo i Sefwi nel mezzo della cosiddetta “cintura di foresta” del Ghana, ossia una vasta area di foresta tropicale che si estende dalla costa fino alle steppe del nord del paese, il disboscamento costituiva spesso l’atto fondativo di una comunità e colui che lo attuava ne era poi il capo. Se la sua autorità era inizialmente legata alla capacità di rendere coltivabile un terreno boscoso, una volta instaurata una comunità stanziale, il capo manteneva le sue prerogative in virtù della sua capacità di interagire con gli antenati, i quali garantivano la fertilità dei terreni e l’abbondanza dei raccolti. Il legame tra sviluppo e potere politico era, dunque, una caratteristica presente già prima della colonizzazione e correlata al rapporto privilegiato che lega un capo con il terreno su cui vive la sua comunità. Ancora adesso l’utilizzo di un terreno a fini agricoli è definito “sviluppo”: il termine nkosuo, infatti, è utilizzato indifferentemente per descrivere le moderne iniziative proposte da ONG o altri enti multinazionali, così come la preparazione dei terreni per la semina. Le mie interviste mi spingevano, dunque, a pensare che lo sviluppo fosse uno degli elementi fondamentali della vita politica locale e che questa situazione non fosse legata solamente all’importanza dei progetti delle ONG occidentali, ma anche all’antico ruolo dei capi nel rendere il terreno appetibile per le attività agricole su cui si basava l’economia della regione. Restava da capire come questo ruolo fosse stato ridefinito nel contesto dello stato moderno e delle diverse mansioni che le strutture politiche indigene assunsero in epoca coloniale e postcoloniale.

La principale conseguenza dell’inglobamento dell’attuale Ghana all’interno dell’Impero britannico, sul finire dell’800, fu la trasformazione dell’economia, inserita in reti di scambio e produzione ben più estesi e complessi dei precedenti. La regione di Sefwi Wiawso, infatti, era tradizionalmente un feudo dell’impero Asante, uno dei principali regni precoloniali in Africa, che comprendeva la maggior parte delle province nella cintura di foresta ghanese. La struttura politica dell’Asante era, per certi aspetti, simile ai regimi feudali dell’Europa medievale: una serie di signori locali che esercitavano il proprio potere su un limitato numero di sudditi (tendenzialmente il loro villaggio, o piccole unioni di villaggi confinanti) ed erano formalmente sottomessi ad un’autorità superiore, quella dell’imperatore Asante, cui pagavano tributi e prestavano soccorso in caso di guerra. Quelli che oggi sono i capi tradizionali erano, pertanto, signorotti in grado di garantire la sicurezza ed il benessere di piccoli gruppi di contadini all’interno di uno o più villaggi. L’espansione dell’Asante si basava sulla capacità di nuovi signorotti di “sviluppare”, ossia di disboscare aree di terreno rendendole coltivabili e permettendo ai loro sudditi di praticare un’agricoltura di sussistenza. Questo assetto economico e politico rimase stabile per circa due secoli, tra il 1600 ed il 1800, favorendo la formazione di una classe nobiliare il cui potere era legato all’abilità di garantire l’accesso a terreni fertili, permettendo così quell’agricoltura di sussistenza alla base dell’impero Asante.

I Sefwi accettarono pacificamente il dominio coloniale e, sul finire dell’800, ripudiarono la fedeltà all’Asante per sottomettersi alla corona britannica, che ne riconobbe il ruolo di “capi tradizionali”. L’imperatore Asante rifiutò di sottomettersi ai colonizzatori, ma in pochi anni fu sconfitto e, dagli inizi del ‘900, l’intera regione era sotto controllo britannico. Se da un punto di vista economico l’inclusione del territorio Asante nei circuiti economici occidentali ebbe conseguenze radicali, in quanto determinò il passaggio da un’agricoltura di sussistenza e commerci basati sul baratto alla produzione finalizzata all’esportazione e all’introduzione della moneta, politicamente le conseguenze furono meno drammatiche. Gli inglesi, infatti, optarono per il cosiddetto indirect rule: riconobbero il ruolo delle autorità locali, ribattezzate tradizionali, a patto che accettassero il governo coloniale, garantissero ordine sul territorio, sviluppassero le coltivazioni destinate alle esportazioni di cui la madrepatria aveva bisogno e raccogliessero le tasse in sua vece. Il Ghana divenne il principale produttore di cacao dei domini britannici, i cui profitti venivano pagati in moneta, consentendo agli abitanti delle zone rurali di pagare le tasse ed essere inseriti in una più vasta economia di scambio. Gli inglesi pensarono che questo avrebbe progressivamente eroso la legittimità delle autorità tradizionali e favorito lo nascita di strutture istituzionali moderne. Con l’indipendenza dalla Gran Bretagna, ottenuta nel 1957, si pensava che questo processo fosse ormai giunto a compimento: il Ghana divenne una repubblica ed il ruolo delle autorità tradizionali era, formalmente, poco più che rappresentativo.

Eppure, per tutta la seconda metà del ‘900, le autorità politiche moderne ebbero un’autorevolezza estremamente limitata ed i colpi di stato militari si succedettero numerosi. In questo contesto di instabilità, i capi tradizionali si confermarono le istituzioni più vicine ed affidabili per le popolazioni delle zone rurali. Essi, inoltre, non risentirono delle trasformazioni economiche legate alla colonizzazione ad all’inclusione nel sistema capitalistico globale, ma seppero ritagliarsi un ruolo rilevante nel nuovo contesto. Con il passaggio ad un’economia fondata sull’esportazione di cacao, seppero agire da intermediari con i nuovi centri di potere introdotti dagli europei, utilizzando il loro tradizionale ruolo di custodi della terra per gestire la trasformazione delle modalità di produzione e premere sulle istituzioni coloniali e postcoloniali affinché gli introiti legati alla tassazione della produzione agricola fossero utilizzati per opere rilevanti sul territorio, oltre a garantirsi rendite che gli permettessero di mantenere uno stile di vita “aristocratico” e prestigioso agli occhi dei loro sudditi. Lo sviluppo, pertanto, rimase il cardine della loro autorevolezza, mentre mutarono le modalità per la sua realizzazione. In un mondo quale quello precoloniale, in cui la popolazione era scarsa ed i terreni incolti abbondanti, la capacità di mobilitare persone per disboscare e rendere coltivabile nuovi appezzamenti era fondamentale. Una volta inglobata la regione Sefwi nel sistema coloniale, la creazione di nuove infrastrutture, ospedali ed i bisogni di una economia di esportazione determinarono una rapida crescita demografica ed una conseguente riduzione dei terreni incolti. In questo nuovo contesto, la capacità di mediare con le autorità dello stato, coloniale prima e postcoloniale poi, al fine di garantire migliori infrastrutture e condizioni di vita, divenne la principale modalità per garantire lo sviluppo della comunità. In questo senso, la motivazione dei capi ad agire per lo sviluppo non è nulla di nuovo: quello stesso nkosuo che garantì prestigio e potere prima della colonizzazione, rimane, oggi, un cardine della loro legittimità. In questo senso, l’attenzione ai progetti di sviluppo finanziati dai capitali occidentali è un adattamento alle nuove condizioni, una strategia per mantenere potere e prestigio e diventare attori centrali nella quinta repubblica ghanese, nata nel 1992.

Il merito della costituzione civile del 1992 e ad oggi la più duratura del paese, è quello di aver sancito l’inclusione dei capi nell’ordine istituzionale moderno e di aver reso possibile un’effettiva collaborazione tra capi tradizionali ed autorità locali. I capi tradizionali, infatti, sono autorità riconosciute ed hanno rappresentanti in tutte le assemblee elettive del paese, senza, però, poter prender parte all’agone elettorale. In questo modo, autorevolezza e prerogative dei capi hanno potuto integrarsi con quelle delle autorità democratiche, ad un livello sia nazionale, sia locale. Questo ha ridotto la conflittualità interna e coinvolto maggiormente le popolazioni rurali nelle politiche di sviluppo pianificate da stato ed enti internazionali. Riprendendo le domande iniziali alla luce di queste osservazioni, i capi tradizionali si presentano come degli intermediari tra diversi mondi di significato, che esprimono i bisogni percepiti dalla maggioranza della comunità traendone, in cambio, prestigio e legittimità. Il loro ruolo è cruciale non solo in quanto controllori della terra, ma anche per la loro abilità di coinvolgere la comunità e di rendere progetti di sviluppo pianificati altrove più adeguati alle esigenze dei beneficiari. Infine, seppur basati su prerogative e modalità di selezione diverse dalle autorità democratiche (i capi tradizionali non sono eletti, ma nominati da un concilio di capi all’interno della “famiglia reale” del villaggio), la loro autorità morale è in grado di orientare e mobilitare le comunità in maniera più efficace dei rappresentanti democratici, spesso percepiti come espressione di una parte, piuttosto che della collettività. In questo senso, il loro ruolo è in qualche modo complementare a quello delle autorità democratiche, in un contesto in cui lo stato moderno, introdotto dal governo coloniale, tende ad essere percepito come qualcosa di estraneo.

Vi sono, tuttavia, limiti e contraddizioni nel ruolo dei capi. La loro effettiva capacità di partecipare allo sviluppo varia sensibilmente da villaggio a villaggio: mi è capitato di visitare villaggi in cui istruiti e competenti capi tradizionali pianificano progetti e organizzano la comunità in modo più efficace e lungimirante di molti amministratori europei, così come villaggi in cui tale carica è ricoperta da anziani alcolizzati interessati solo a lucrare una rendita in virtù del loro ruolo di controllori della terra. La natura della loro autorità, inoltre, è intrinsecamente antidemocratica e, quindi, in contraddizione coi principi di una moderna repubblica. Il capo tradizionale è un nobile, scelto da altri nobili all’interno di una famiglia aristocratica in quanto detentore di un potere ancestrale legato all’appartenenza ad un lignaggio. Sebbene, al fine di mantenere autorevolezza, esso tenda ad agire per il bene della propria comunità, non vi sono vincoli istituzionali perché la sua autorità sia esercitata in maniera trasparente e imparziale. I progetti di sviluppo, cooperando con queste forme di autorità, legittimano e rafforzano un potere basato sulla disuguaglianza dei cittadini e su una squilibrata possibilità di accesso alle risorse che contrasta con gli ideali di equità e democrazia sanciti dalla costituzione repubblicana del Ghana e alla base dei progetti di cooperazione internazionale.

In conclusione, l’argomento è complesso ed il ruolo dei capi tradizionali nello sviluppo problematico. Se apparentemente il binomio capi tradizionali e sviluppo può apparire una contraddizione, l’analisi storico-etnografica mostra come in realtà vi sia un legame radicato tra le due dimensioni: il concetto di sviluppo in Ghana ha una sua origine autonoma e si è poi articolato in vari modi durante il periodo coloniale e postcoloniale, mantenendo sempre una stretta relazione col ruolo dei capi villaggio. Dopo le turbolenze seguite all’indipendenza, l’assetto istituzionale del 1992 sembra aver trovato un equilibrio efficace tra autorità tradizionali ed autorità politiche democratiche, in grado di garantire coesione sociale e maggior coinvolgimento delle popolazioni rurali nelle politiche di sviluppo. Da un lato tutto ciò sta garantendo crescita economica ed un miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. In tale assetto, tuttavia, le autorità tradizionali riescono a mantenere e spesso rafforzare un potere non democratico, non sempre in grado di garantire equità e diritti nell’accesso alle risorse ed ai benefici derivanti dallo sviluppo. La stessa competizione politica, inoltre, è una sorta di gara a chi “sviluppa” più in fretta, senza troppe riflessioni sulla sostenibilità e sull’equità di questo genere di politiche. Paragonando il Ghana ad altri stati molto più instabili e conflittuali, come, ad esempio, la vicina Costa d’Avorio, dilaniata da una lunga guerra civile, o la Nigeria, flagellata da movimenti indipendentisti in lotta con il governo centrale, il modello tracciato con la costituzione del 1992 sembra indubbiamente efficace. Tuttavia, se, fino ad ora, la pressoché costante crescita economica ha consentito ai capi di mantenere il loro prestigio, favorendo un contesto di pace sociale, bisogna vedere quali saranno le reazioni ad un eventuale rallentamento dell’economia. I capi riusciranno ad amministrare e distribuire beni e risorse in maniera condivisa e accettata o il loro ruolo privilegiato verrà rimesso in causa? I vari amministratori locali eletti democraticamente continueranno ad identificare nei capi degli alleati per mobilitare le comunità in vista di obiettivi comuni o riemergeranno rivalità e competizioni? Osservare l’evoluzione di questo interessante esperimento istituzionale nei prossimi anni potrebbe dare interessanti indicazioni, non solo per il Ghana, ma per l’Africa sub sahariana nel suo complesso.