Mohammad Reza Palhavi salì al trono dell'Iran nel 1941, dopo che suo padre, Reza Palhavi abdicò in suo favore. Durante la Seconda Guerra Mondiale, infatti, l'Iran, alleato con la Germania nazista, fu occupato dalle truppe Anglo-Sovietiche. Per garantire l'indipendenza del paese, Reza Palhavi, sotto pressione degli Stati Uniti, fu costretto a lasciare il trono a suo figlio, in cambio di un appoggio politico.

Nonostante la difficile situazione economica causata dalla guerra, nei primi anni di governo di Mohammad rifiorì la vita politica e culturale iraniana, a differenza di quanto era accaduto durante il regno di suo padre. Nacquero diversi partiti politici, tra i quali il filo sovietico Tudeh (Le masse) e il filo britannico, pro-British National Will, e si organizzarono i primi sindacati. Al tempo stesso, presero piede anche le forze clericali più conservatrici, che durante il regno del precedente Scià erano state messe all'angolo.

Nel coacervo di partiti politici che animavano l'Iran di Mohammad Reza Pahlavi, prese piede il Fronte Nazionale, un movimento formato da nazionalisti, partiti di sinistra non comunisti ed ecclesiastici. Leader del Fronte Nazione era Mohammad Mosaddeq, un avvocato di lunga carriera, il cui scopo politico era ridurre i poteri della monarchia e, soprattutto, porre sotto il controllo nazionale le numerose risorse naturali.

Dopo aver vinto le elezioni del 1951, come prima cosa Mosaddeq nazionalizzò l'industria petrolifera. La risposta britannica (il paese che traeva maggiori benefici dal petrolio iraniano) non tardò ad arrivare: da Londra arrivò un pesante embargo economico nei confronti di Teheran. Le tensioni tra il governo di Mosaddeq e lo Scià andarono peggiorando, fino a quando quest'ultimo non fu costretto a lasciare il paese e andò in esilio in Europa. Nel frattempo, con l'appoggio della CIA, Stati Uniti e Gran Bretagna organizzarono un colpo di stato ai danni di Mosaddeq, permettendo nel 1954 il rientro in patria dello Scià.

Le nazionalizzazioni di Mosaddeq non riuscirono ad impedire l'entrata in campo delle multinazionali occidentali (in particolare la British Petroleum), che, a partire dal 1954, non tardarono a cambiare la struttura economica dell'Iran. Per mantenere l'ordine all'interno del paese, lo Scià, con l'aiuto dei servizi segreti statunitensi e israeliani, formò lo SAVAK (acronimo di Sazman-e Amniyyat va Ettela'at-e Keshvar, Organizzazione di Sicurezza Nazionale), una forza di polizia segreta, onnipresente a tutti i livelli della società iraniana. L'opposizione fu messa a tacere e il regime divenne sempre più duro.

Il petrolio divenne la spina dorsale dell'economia. Con il supporto degli advisor statunitensi, lo Scià però, cercò di differenziare la struttura economica dell'Iran, dai proventi del petrolio, infatti, favorì la crescita dell'industria pesante. Nel 1962, inoltre, fu introdotta una riforma agraria che costrinse i grandi proprietari terrieri ad abbandonare parte dei loro possedimenti in favore dei piccoli coltivatori, in cambio, il governo diede ai proprietari terrieri quote di mercato nelle industrie iraniane.

La riforma agraria spianò la strada alla Rivoluzione Bianca, un ambizioso programma sociale e politico che, a partire dal 1963, avrebbe dovuto trasformare l'economia e la società iraniana. In questo modo, il governo ridistribuì i terreni a 2milioni e mezzo di famiglie, favorendo la scolarizzazione e migliorando le condizioni sanitarie nelle aree più rurali del paese. La Rivoluzione Bianca spinse lo stato verso una maggiore laicità, sostenendo anche l'emancipazione delle donne. Le riforme dello Scià portarono, a cavallo tra gli anni '60 e '70, una forte crescita economica, ma non abbastanza da sostenere le pesanti trasformazioni, e le conseguenti tensioni che scuotevano la società del paese mediorientale.

La riforma agraria, infatti, non fu in grado di portare sufficiente ricchezza ai piccoli coltivatori che si riversarono in massa nelle grandi città in cerca di fortuna. Inoltre, la Rivoluzione Bianca attirò a sé le ire degli ulema, i leader spirituali. Molte delle terre confiscate appartenevano alle vaqf, le associazioni caritatevoli che erano amministrate proprio da quest'ultimi.

Tra i capi religiosi che si opponevano alle politiche dello Scià, si fece strada un certo Ruhollah Musawi Khomeini, insegnante di filosofia alla Fay'iyyeh Madrasah (scuola islamica) di Qom, insignito, per la sua battaglia contro le politiche dello Scià, col titolo di Ayatollah (in arabo, "segni di Allah", cioè il titolo più elevato per il clero sciita). La risposta di Mohammad Reza Pahlavi fu la chiusura della scuola di Khomeini e l'esilio per quest'ultimo, prima in Turchia, Iraq e poi in Francia. Durante i sei anni di esilio, Khomeini elaborò la dottrina politico-religiosa del velayat-e faqih (in farsi, il "governo dei giuristi") che avrebbe costituito la base teorica per la creazione del futuro stato islamico sciita.

Nonostante l'esilio di Khomeini, il movimento degli ulema fece sempre più proseliti, soprattutto tra i disoccupati che avevano lasciato la campagna per cercar fortuna nelle grandi città, ritrovandosi, dopo il boom economico degli anni '60, ai margini della società. In quegli anni, cominciarono a circolare migliaia di nastri e documenti con i discorsi dell'Ayatollah nei quali si accusava lo Scià di non rispettare la religione, di essere un servo nelle mani delle potenze straniere, in particolar modo gli Stati Uniti, e di appoggiare lo stato di Israele contro le altre nazioni arabe.

A cominciare dal gennaio 1978, in risposta alle accuse mosse contro Khomeini sui quotidiani della capitale, migliaia di studenti islamici scesero per le strade di Teheran, seguiti, da altri giovani, la maggior parte dei quali disoccupati che protestavano contro gli eccessi del regime. La risposta dello Scià, da tempo malato di cancro, fu piuttosto confusa. In un primo momento le milizie regali repressero nel sangue le proteste, causando un'inevitabile recrudescenza della violenza e dello scontento contro la famiglia reale. Ma, nel 1979, quando le sue condizioni di salute si aggravarono, lo Scià cercò riparo negli Stati Uniti per ricevere un trattamento medico adeguato, lasciando il paese nel caos.

Nonostante il diniego da parte di Washington (per non attirare prendere parte diretta nella difficile situazione politica iraniana), l'episodio ebbe un'eco molto pesante all'interno del movimento rivoluzionario iraniano, e con molta probabilità fu la scintilla che portò al rapimento dei 55 diplomatici americani. Ad un anno dalle prime insurrezioni, Mohammad Reza Pahlavi lasciò l'Iran, per riparare prima in Iraq e poi in Egitto, dove morì.