Il 25 settembre 2011 è morta a Nairobi Wangari Muta Maathai, la prima donna africana a ricevere il Nobel per la Pace. Si tratta di un personaggio poco conosciuto in Occidente, ma che per più di 30 anni ha lottato in difesa dell'ambiente e per i diritti delle donne, contribuendo in maniera significativa alla democratizzazione della sua nazione, il Kenia.

Nel 2004, infatti, la Commissione Norvegese le assegnò il premio riconoscendo il suo "contributo per uno sviluppo sostenibile, per la democrazia e la pace". Il suo impegno aveva come perno il legame tra questione ambientale, diritti delle donne e democrazia: "La pace dipende dalla nostra capacità di difendere l'ambiente in cui viviamo", aveva detto alla cerimonia di consegna.

Nata nei pressi di Nyeri, nella parte centrale del Kenia, il primo aprile 1940, Maathai riuscì ad entrare nella scuola cattolica di Loreto grazie all'appoggio del fratello Nderitu (all'epoca, infatti, era impensabile che una donna potesse essere istruita). Nel 1960 ottenne la borsa di studio "Kennedy airlift", messa a disposizione dal governo americano e dalla stessa famiglia Kennedy, che le permise di studiare al Mount St. Scholastica College, nel Kansas dove conseguì una laurea in scienze biologiche.

Nel 1966 si specializzò all'Università di Pittsburgh. Una volta terminati gli studi negli States, tornò in Kenia per studiare Medicina Veterinaria all'università di Nairobi. Nel 1971 fu la prima donna del continente a conseguire il dottorato, nonché la prima donna ad ottenere una cattedra presso un'università africana.

Negli anni '70, la Maathai cominciò a collaborare con il National Council of Women in Kenya, organizzazione no-profit nata nel 1964 per migliorare la condizione femminile, grazie alla quale entrò in contatto con le donne delle zone più rurali del paese. Da queste donne apprese che la maggior parte dei disagi provenivano da questioni di tipo ambientale: la mancanza di legna per il fuoco, per cucinare e riscaldarsi, la scarsità di acqua pulita e di cibo. Maathai suggerì loro di piantare alberi.

Gli alberi avrebbero garantito legna per il fuoco, cibo per il bestiame, e materiale per costruire, inoltre, avrebbero reso il suolo più stabile e protetto dalle inondazioni. Tali osservazioni furono alla base della nascita del Green Belt Movement.

Il Green Belt Movement (GBM) è l'associazione no-profit che Wangari Muta Maathai fondò nel 1977 per aiutare, in primo luogo, le donne keniote, attraverso una serie di iniziative ambientaliste. Punto di partenza era proprio lo stretto rapporto che legava le forme di sussistenza nelle aree rurali e le condizioni di vita delle persone che vi abitavano: "non può esserci pace senza uno sviluppo equo e non può esserci sviluppo senza una gestione sostenibile dell'ambiente in uno spazio democratico e pacifico."

Wangari Muta Maathai partiva da un'osservazione empirica, e anche piuttosto semplice: i conflitti in zone come il Darfour o il Medio Oriente avevano come oggetto di contesa le risorse naturali. "Ci sono legami tra pace, da una parte, e ambiente, dall'altra, per cui la scarsità di risorse, come il petrolio, l'acqua, i minerali e legname diventano motivo di conflitto". Negli anni, il Green Belt Movement ha piantato circa 30 milioni di alberi in tutta l'Africa, con il risultato, tra l'altro, di aver arginato la desertificazione della regione sub-sahariana.

L'impegno politico della Maathai, però, non fu privo di ostacoli, anzi. Durante gli anni '80 e '90, il GBM prese posizione, assieme ad altre organizzazioni no-profit, contro il presidente Daniel Arap Moi, a capo del Kenya African National Union, l'unico partito legalmente riconosciuto. In risposta, il regime di Arap Moi fece imprigionare più volte la Maathai e il suo staff. La Maathai aveva lanciato una dura campagna contro la cementificazione dei parchi nei dintorni di Nairobi ed era riuscita a fermare la deforestazione della zona di Karura. Inoltre, si era schierata al fianco delle madri di prigionieri politici, e - attraverso veglie e manifestazioni - era riuscita ad ottenere la liberazione di 51 uomini.

Una volta finito il regime di Arap Moi, nelle elezioni del 2002 (le prime svolte in maniera democratica), Maathai venne eletta nel collegio Tetu (il distretto vicino alla sua città natale). Nel 2003, il presidente Mwai Kibaki la nominò Ministro dell'ambiente. Durante gli scontri seguiti alle elezioni del 2007, la Maathai si propose come mediatrice tra le diverse fazioni (da una parte i sostenitori di Mwai Kibaki, dall'altra quelli dello sfidante Raila Odinga, che accusava il rivale di brogli). Il risultato fu un governo di coalizione che portò alla stesura di una nuova costituzione, votata con un referendum nel 2010.

Nel corso degli anni, la Maathai ricevette numerosissimi premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Del resto, il lavoro di sensibilizzazione verso le tematiche ambientali non si limitò al continente africano. Nel 2006, infatti, Maathai e il suo GBM entrarono a fare parte del Programma Ambientale delle Nazioni Unite, il cui obiettivo era piantare un milione di alberi in tutto il pianeta. In un solo anno riuscirono a raggiungere l'obiettivo, prefissandosi di piantarne altri 14 milioni.

Sebbene il suo impegno fosse globale, la Maathai era consapevole che i cambiamenti climatici non incidono allo stesso modo. In uno dei suoi ultimi discorsi (il 4 luglio 2001, in vista del summit dell'Unione Africana), riferendosi soprattutto alla grave crisi umanitaria in Somalia, la Maathai sottolineò che l'Africa stava pagando il prezzo più alto di tutti: "Possiamo vedere come i cambiamenti climatici stanno facendo aumentare la contesa per le risorse e minacciano la stabilità economica di tutto il continente".

Il suo appello non sembra aver trovato ancora risposte adeguate. In Africa, così come nel resto del mondo, un intervento decisivo ad arginare gli effetti dei cambiamenti climatici sembra essere ben lontano. Eppure Wangari Muta Maathai ha insegnato che la persistenza è l'unica strada perseguibile: "Tutti quelli che sono riusciti ad ottenere dei risultati sono stati buttati giù tante volte. Ma ogni volta si sono rialzati e hanno hanno continuato per la loro strada, e questo è quello che ho sempre cercato di fare".