Il 6 ottobre 1973, durante la celebrazione del Yom Kippur (la festività ebraica dell'espiazione), l'Egitto, appoggiato dalla Siria e da altre nazioni arabe (come la Libia) invase i territori israeliani nella penisola del Sinai. Dopo pochi giorni lo stato di Israele sconfisse le truppe arabe, arrivando alle porte de Il Cairo.

In risposta, il 17 ottobre 1973 i membri dell'Organizzazione dei paesi arabi esportatori di petrolio (Organization of Arab Petroleum Exporting Countries, OAPEC) decisero di non esportare più l'oro nero nei paesi sostenitori dello stato di Israele (in particolare Stati Uniti e Olanda per aver fornito armi ai sionisti), innescando così la crisi petrolifera del 1973.

La guerra dello Yom Kippur ridisegnò per l'ennesima volta i confini dello Stato di Israele che riuscì ad annettere tutta la città di Gerusalemme, buona parte della striscia di Gaza (fino ad allora controllata dall'Egitto) e la penisola del Sinai (controllata dalla Giordania), costringendo ad un nuovo intervento da parte delle Nazioni Unite.

Con la Risoluzione 338, l'ONU invitava Israele a ritirarsi dai Territori Occupati in funzione di un possibile avvio di trattative di pace, nonché alla cessazione delle attività terroristiche dei palestinesi. Anche se riluttante, Israele accettò le condizioni, e altrettanto fecero Nasser e re Husayn di Giordania, ma Siria e palestinesi rifiutarono.

Pare che parte del rifiuto da parte araba fosse dovuto da una certa ambiguità all'interno del condizioni imposte dalle Nazioni Unite: la risoluzione non indicava con precisione da quali Territori, se da tutti o da una parte, si sarebbe dovuto ritirare lo stato ebraico. I Territori Occupati durante la guerra dei sei giorni sono ancora tutt'ora oggetto di disputa. A partire dagli anni '70, infatti, nella striscia di Gaza e in Cisgiordania si diressero molti israeliani, creando colonie agricole e insediamenti, talvolta abusivi, costringendo le popolazioni arabe alla fuga.