Il processo di pace
Gli sforzi diplomatici per porre fine al lungo conflitto israelo-palestinese

In un interessante articolo pubblicato l'8 gennaio 2009 (nel pieno dell'operazione israeliana Piombo Fuso), il settimanale britannico The Economist definisce il conflitto arabo-palestinese la "Guerra dei cent'anni" (The hundred years' war). In effetti è da quasi un secolo che i coloni israeliani prima, lo stato ebraico poi, sono in lotta contro le popolazioni arabe della Palestina.
Probabilmente le ragioni degli uni e degli altri sono complementari, come i rispettivi torti. Di fatto, dopo quasi cent'anni la soluzione del conflitto sembra essere ben lontana. Anche se, in tutto questo susseguirsi di accuse e rivendicazioni da una parte e dall'altra, di attacchi kamikaze, di missili e colpi di mortaio, c'è stato solo un momento in cui (e andrebbe comunque aggiunto un doveroso forse), si è sperato di poter realizzare la pace in Medio Oriente.
Gli accordi di Oslo furono successivamente ratificati a Washington il 13 settembre 1993. Alla cerimonia parteciparono in veste di garanti Warren Christopher, segretario di stato statunitense, Andrei Kozyrev ministro degli esteri russo, e lo stesso presidente americano Bill Clinton.
Israele si impegnò a lasciare entro un anno la Striscia di Gaza e la Cisgiordania (entrambe occupate da Israele tra il 1967, la guerra dei 6 giorni, e il 1973, il conflitto dello Yom Kippur), concedendo i Territori Occupati sotto la guida di una Autorità Nazionale Palestinese nata dalle ceneri dell'OLP, che rinunciava alla lotta armata e al terrorismo, e la conseguente accettazione dell'esistenza di uno stato ebraico.
L'obiettivo dei negoziati era di stabilire un'autorità palestinese di autogoverno ad interim, un consiglio eletto per il popolo palestinese della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, per un periodo transitorio di non più di cinque anni, che portasse a un insediamento permanente basato sulle risoluzioni 242 e 338 dell'ONU (la prima risoluzione è relativa alla guerra dei 6 giorni, la seconda a quella dello Yom Kippur).
Al tempo stesso, questioni annose come lo status giuridico di Gerusalemme, i rifugiati palestinesi e gli insediamenti israeliani nell'area vennero deliberatamente esclusi dagli accordi e lasciati in sospeso. La ratifica del trattato rappresentò un passo decisivo verso la risoluzione pacifica del conflitto che per decenni aveva tinto di sangue la mezzaluna fertile.
Il 30 settembre del 1994, ad un anno dagli accordi di Oslo, infatti, la Lega Araba pose fine all'embargo contro Israele e con i paesi che facevano affare con lo stato ebraico. E un anno dopo, venne firmata la seconda parte degli accordi di Oslo, con cui nasceva l'Autorità Nazionale Palestinese e la polizia palestinese. Il 26 ottobre 1994, inoltre, fu siglato un accordo di pace a Wadi Araba (città posta tra lo stato di Israele e la Giordania) tra Israele e il governo di Amman.
Ma se la comunità internazionale, e in particolare l'amministrazione Clinton, cantavano vittoria, sul fronte interno la situazione continuò a rimanere tesa, fino a quando gli sforzi diplomatici subirono un improvviso colpo d'arresto: il 4 novembre 1995 durante una manifestazione pacifista a Tel Aviv il primo ministro Rabin fu ucciso da un estremista conservatore israeliano, Yigal Amir, convinto che Israele non avrebbe dovuto trattare con i paesi arabi e il nemico palestinese. Uccidendo Rabin, Amir era convinto che avrebbe fermato il processo di pace e gli accordi di Oslo. E, in qualche modo, così fu.
L'assassinio del primo ministro israeliano ebbe un'eco enorme in tutto il mondo, e anche in quello arabo. Ai funerali, che si tennero due giorni dopo a Gerusalemme, parteciparono leader occidentali (Clinton, il primo presidente russo Chernomyrdin, il presidente dell'UE Felipe González e il segretario ONU Boutros-Ghali), ma anche i capi di stato arabi, re Hussain di Giordania, il presidente egiziano Mubarak, Arafat fu invitato ma decise di non partecipare, esprimendo le proprie condoglianze in pubblico).

Barak, Clinton e Arafat
a Camp David nel 2000
Il 3 e il 4 marzo 1996, kamikaze palestinesi organizzarono due bombardamenti suicidi in cui morirono 32 cittadini israeliani. Questi due attentati causarono la caduta politica di Peres. Come risposta, infatti, gli israeliani elessero come primo ministro (per la prima volta in maniera diretta) Benjamin Netanyahu, leader del partito conservatore Likud.
Gli anni di Netanyahu furono caratterizzati da un atteggiamento ostile nei confronti dell'ANP di Arafat, che portò inevitabilmente ad uno stallo nel processo di pace. Dopo 4 anni però, lo stesso Netanyahu (in seguito anche ad una serie di scandali interni) perse credibilità sia nei confronti del popolo israeliano che della comunità internazionale.
Nelle consultazioni del 1999, infatti, Ehud Barak, a capo del partito laburista, fu eletto primo ministro. Una delle prime iniziative di Barak (il militare più decorato della storia d'Israele), fu il ritiro delle forze militari dalla zona di sicurezza del Libano meridionale, dando così un nuovo impulso al difficoltoso processo di pace.
Tra il'11 e il 14 luglio 2000, Barak e il leader dell'ANP, Arafat, si incontrarono negli Stati Uniti a Camp David, ospitati dal presidente USA, Bill Clinton. Senza introdurre nuove clausole, le due parti si impegnarono a ripartire dalle risoluzioni 242 e 338 dell'ONU e a evitare azioni unilaterali che potessero inficiare l'esito dei negoziati.
A Camp David, però, il processo di pace si arrestò improvvisamente, quando Arafat abbandonò il tavolo delle trattative. Il motivo fu la richiesta da parte dell'ANP del ritiro di Israele dai Territori Occupati e il ritorno ai confini del '67 (e non quelli del '73) come precondizione per il proseguimento dei negoziati, nonostante le concessioni dello stato ebraico fossero le più "generose" mai offerte alla Palestina (il 91% della striscia di Gaza e della Cisgiordania, il controllo palestinese su Gerusalemme Est e un fondo monetario per l'indennizzo e il rientro dei profughi palestinesi, che all'epoca erano circa 700.000).
Dal canto suo Israele chiedeva di poter installare avamposti militari in territorio palestinese, controllarne lo spazio aereo, dispiegare truppe in caso d'emergenza, lo stazionamento di una forza internazionale nella valle del Giordano e, più di ogni cosa, la demilitarizzazione della Palestina.
Nonostante gli sforzi diplomatici, dal 2000, il conflitto israelo-palestinese non si è placato, anzi, si è andato radicalizzando sempre più. In particolar modo, dall'isolamento di politico di Arafat (confinato nel suo quartier generale a Ramallah dalle truppe israeliane guidate da Sharon), alla sua morte, in Francia, l'11 Novembre 2004.
L'atteggiamento del leader dell'ANP, giudicato ambiguo da buona parte dei mediatori internazionali e dallo stato ebraico, portarono ad un nuovo stallo del processo di pace. Nel frattempo che Hamas, organizzazione politico-militare palestinese di stampo radicale e islamica, molto probabilmente finanziata dall'Iran, guadagnava sempre più consenso, soprattutto nella striscia di Gaza. Dal 2006, infatti, l'ANP perse il totale controllo della striscia, diventata ormai la roccaforte di Hamas che il 25 gennaio 2006 vinse le elezioni legislative.
L'ennesima invasione israeliana del Libano meridionale (causata dall'uccisione da parte di Hezbollah di soldati israeliani) e i bombardamenti di Gaza a cavallo tra il 2008 e il 2009, hanno portato ad un empasse nella risoluzione del conflitto.
[Nell'immagine: Rabin e Arafat alla consegna del Nobel per Pace nel 1994]
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